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Nove podcast per costruire la via black al femminismo

Scrittrici pluripremiate. Attiviste influenti. Ma anche registe, filosofe, imprenditrici. Dalla Nigeria al Brasile, dagli Usa all’Italia, modelli di empowerment raccontati da due afroitaliane. Con ironia pop. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba

Due donne chiacchierano allegramente, parlano con entusiasmo di altre donne che fanno cose interessanti, si impegnano, hanno successo. Sono donne diversissime ma tutte – le due che parlano e le nove di cui si parla - hanno una cosa in comune: anche se vengono da tutto il mondo, dagli Usa alla Nigeria, dall'Italia al Brasile, le loro radici rimandano all'Africa. La Somalia per la scrittrice Igiaba Scego, il Benin per l'attrice Esther Elisha: due voci affermate dell'Italia afrodiscendente che si sono unite per un progetto a cui tenevano molto, i podcast “Tell me mama” di Storytel (bellissime le copertine di Mafreshu, nome d’arte di Nazanin Rastan, illustratrice iraniana di Firenze). È una serie di ritratti di donne che tutti dovrebbero conoscere ma che in particolare per le italiane di origine africana possono essere un modello a cui ispirarsi, un precedente da cui ricavare fiducia e autostima.

 

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«Sono vent'anni che ci conosciamo e progettiamo di fare qualcosa insieme», racconta Elisha. «Dopo tante idee, questo è il primo progetto che realizziamo». E Scego spiega: «Abbiamo iniziato davvero chiacchierando tra noi, bevendo tisane e saltando di palo in frasca, parlando di “blackness”, di rabbia, di razzismo ma anche di arte e creatività». «Ma poi per ricreare quella naturalezza nei podcast ci sono voluti mesi di lavoro, di riletture, e poi tanti ritocchi in diretta», aggiunge Ester, che ha più esperienza con la recitazione: attrice per cinema (“Là-Bas” di Guido Lombardi), teatro (“Good people” di Roberto Andò) e tv (“Tutto può succedere”), è anche la voce dei libri di Igiaba Scego. Ha registrato per Audible l'ultimo romanzo, “La linea del colore”: «È una cosa che faccio molto volentieri perché i suoi libri sembrano fatti per essere letti ad alta voce», spiega.

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Podcast dopo podcast, man mano che si costruisce questo piccolo panteon dell'empowerment femminile, si riconoscono le beniamine delle due curatrici. Per Elisha, l'attrice e regista Michaela Coel, britannica di origini ghanesi: «È una delle mie preferite», spiega, «perché dopo un lungo cammino profesisonale, con “I may destroy you” è riuscita a mettere a disposizione del pubblico il dolore per la violenza sessuale che ha subito facendone però lo spunto per una storia di amicizia e di rispetto per i limiti del consenso». Ammira molto anche la canadese Janaya Future Khan, fondatrice di Black Lives Matter Canada e ora ambassador mondiale del movimento. Khan, spiega Elisha, «fa un profondo lavoro di analisi del razzismo sistemico che la porta a dire cose di grande freschezza: è difficile, parlando di odio razziale, non dire cose ripetute mille volte, e quindi inefficaci».

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Sono più vicine a Igiaba Scego due scrittrici che ha caldeggiato e recensito con grande entusiasmo, l'anglonigeriana Bernardine Evaristo (Booker Prize per “Ragazza, donna, altro”) e Chimamanda Ngozie Adichie, scrittrice, influencer e attivista nigeriana, forse oggi la femminista più famosa al mondo. Però è Kara Walker, artista afroamericana nota per le sue opere ma anche per le prese di posizione controverse persino all'interno della comunità black, a ricordare la coprotagonista della “Linea del colore”: «Non è proprio lei il modello del personaggio del libro, ma in effetti conoscendola meglio mi sono accorta che noi due abbiamo molto in comune», ammette la scrittrice.

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Ma cosa lega personaggi così diversi? Non solo le radici africane: «Sono donne che riescono a realizzare i propri sogni», spiega Elisha, «a realizzarsi, spesso uscendo dagli schemi e da quello che ci si aspettava da loro in quanto donne». C'è Djamila Ribeiro, filosofa e attivista brasiliana, che di recente ha fatto causa a Twitter perché «sfrutta economicamente il razzismo e la misoginia» e «trae profitto dagli attacchi contro donne nere indifese». C'è la francosenegalese Maïmouna Doucouré, biologa che relizza il suo sogno di diventare regista con “Mignonnes”, serie Netflix sull'ipersessualizzazione delle adolescenti che ha scandalizzato il pubblico americano. C'è Mati Diop, anche lei francosenegalese e anche lei regista: con “Atlantique” ha vinto nel 2019 il Gran Premio della giuria a Cannes 2019.

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«Sono donne che hanno storie diverse anche perché essere neri in Africa o negli Usa non è la stessa cosa», commenta Scego. E anche l'Africa è un continente con differenze fondamentali: lo si vede bene nell'antologia che la scrittrice ha appena curato con Chiara Piaggio per Feltrinelli, “Africana. Raccontare il Continente al di là degli stereotipi”. Ogni Paese è diverso: per esempio, racconta Elisha, «quando leggo nei libri di Igiaba la storia violenta della Somalia vedo ancora meglio la differenza con il Benin, il Paese di mio padre, che non ha un passato così drammatico». È diverso anche il rapporto con la storia coloniale italiana di Igiaba Scego, che non a caso è diventata con gli anni una delle maggiori esperte delle tracce “invisibili” che il colonialismo ha lasciato nel nostro Paese, rispetto a quello di Elisha con il Benin: che, spiega, «è ancora troppo legato alla Francia come tutte le ex colonie francesi - e lo racconto nei podcast».

 

Le due amiche parlano ovviamente anche dei due grandi avvenimenti di questo periodo, la pandemia e il movimento Black Lives Matter, ma riescono a mantenere sempre un tono leggero. Chi conosce gli articoli di Scego non si sorprenderà: anni fa esordì sull'Espresso con un ritratto di “Zora l'esploratrice”, eroina di un cartoon per bambini, e poi ha firmato tra gli altri articoli un brillante focus sul dramma di un'italiana di origine africana alla ricerca di un rossetto adatto al tono della sua carnagione. «Abbiamo preferito rischiare di cadere nel cazzeggio piuttosto che nel dramma», conferma Elisha.

 

Perché la narrazione spesso monotonamente drammatica è uno dei rischi della visione del mondo afrodiscendente. Non che non ci siano drammi e tragedie, ovvio: ma uno dei punti di forza della cultura black è proprio la resilienza, la capacità di passare dal dramma alla festa. «Lo si vede bene in un personaggio particolarmente pop come Evelyne Afaawa, blogger e imprenditrice specializzata in capelli afro: la sua azienda di prodotti specializzati si chiama Nappytalia», racconta Scego. L'unica afrodiscendente italiana tra le “Mamas” di Storytel «è una vera “boss lady” e si racconta da sola», spiega ridendo Scego, «in un'intervista a distanza da Accra. Era lì per lavoro, e il podcast è la registrazione della nostra telefonata su Skype».

 

Il mix di impegno e pop sta funzionando, e si vede dalle reazioni sui social. «Mi fanno piacere i messaggi delle ascoltatrici più giovani, che sono grate del lavoro che abbiamo fatto perché sentivano il bisogno di conoscere donne come queste», dice Elisha. «Ragazze che poi postano su Instagram gli oggetti della cultura pop dell'Italia anni novanta in cui Igiaba e io siamo cresciute, o personaggi che citiamo nei podcast». Perché la strada dell'empowerment afrodiscendente passa anche per “Black Parade” di Beyoncé o per Heartbreak High, serie australiana di culto che racconta la vita quotidiana degli studenti di una scuola multietnica che sta a Sidney, ma potrebbe essere in tutto il mondo.

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