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Cultura
novembre, 2022

Avventura, partenza, rinascita. Donne di carta in movimento

Se ne vanno, ritornano, trovano una casa, sbattono la porta. Sono le protagoniste di molte novità editoriali. Corpi in viaggio, alla perenne ricerca di altre versioni di sé

Avventura è una parola al femminile, come partenza, come rinascita. Ed è per un viaggio di rinascita che parte, anzi fugge, la protagonista del romanzo “La ballata del letto vuoto” di William Wall (Nutrimenti, traduzione di Stefano Tettamanti), chiudendo letteralmente dietro di sé la porta di una casa dove il marito è morto d’infarto. Rivelandosi perdipiù, con la scomparsa improvvisa come spietato reagente, un uomo completamente diverso da quello che Kathleen, studiosa di James Joyce e del suo Ulisse (non a caso?), ormai acquietata in una quotidianità che quasi neanche sa di essere infelice, credeva che fosse: travolto dai debiti, e dai creditori che si affrettano a pretendere il dovuto post mortem, e altrettanto debitamente provvisto di amante.

Una donna giovanissima, splendida e bruna: una anti-Banshee che non prefigura altra morte ma il ritorno alla vita, e che riconsegna alla protagonista, senza spiegazioni, la chiave di un appartamento. Che si scoprirà essere in Italia, a Camogli in Liguria, dove Wall, irlandese di Cork, vincitore del Drue Heinz Literature Prize e traduttore dall’italiano, vive buona parte dell’anno. E sarà a Camogli che Kathleen incontrerà la sua mentore, la donna che le darà lezioni di avventura, l’anziana Anna, liberamente modellata dall’autore su Rossana Rossanda, come riconosce nella nota di chiusura. Attraverso Anna e le sue fedeli amicizie – i compagni e le compagne – Kathleen scopre una controsocietà, che sopravvive in modo non nascosto e allo stesso tempo non (più) immediatamente palese tra le pieghe della società che conosciamo, come una intima Avalon che di colpo si renda visibile in mezzo alla Glastonbury del quotidiano.

Se la chiamata all’avventura di Kathleen nella “Ballata del letto vuoto” è del tutto involontaria, come per una Bella addormentata che si risvegli in un mondo distopico che toccherà proprio a lei rendere (almeno un po’) utopico, è il più fermo volere ad animare Erin, protagonista di “Donna vuol dire natura selvaggia” di Abi Andrews (Edizioni di Atlantide, traduzione di Clara Nubile).

Una diciannovenne delle Midlands britanniche decisa a trasformarsi nella versione al femminile di Chris McCandless – a cui è dedicato il film “Into The Wild” – e di Henry Thoreau, l’autore di “Walden. Vita nei boschi”; e a farlo raggiungendo coi più svariati mezzi di trasporto, dalla barca all’autostop, le più remote zone dell’Alaska, e raccontando strada facendo il percorso in un documentario “che sia l’opposto dello sfruttamento coloniale”, “consapevole delle impronte che lascia nella neve”. In quest’opera quantomai ibrida – un po’ romanzo di formazione in prima persona, con inserti di sceneggiatura, e un po’ saggio femminista e ambientalista militante, che prende a spirito guida il fantasma ronzante di Rachel Carson – Erin è una voce riconoscibilissima a cui, incontro dopo incontro, tra amicizie e amori (im)possibili e gesti di violenza con cui ci si scontra in presa diretta o che invece riaffiorano da un apparentemente remoto passato che in realtà è solo l’inizio della sua adolescenza, non è mai concesso, da chiunque si trovi davanti, di pensare di non avere un corpo. Fino all’Alaska, la landa solitaria dove ogni cosa ed ognuno è completamente e totalmente corpo, ma non necessariamente ha un genere.

Dopo le Midlands, l’Irlanda e l’Alaska, torniamo in Italia, con tre raccolte di racconti di tre scrittrici. Sono Marzia Grillo, all’esordio letterario con “Il punto di vista del Sole” per Perrone; Alessandra Sarchi, affermata narratrice, che nel 2017 vince il Campiello Selezione Letterati con “La notte ha la mia voce” (Einaudi), e ora pubblica “Via da qui” per Minimum Fax; e Francesca Scotti, con “Il tempo delle tartarughe”, in libreria per Hacca.

E se il romanzo per queste autrici è casa, allora il racconto possiamo immaginarlo come una mossa del cavallo, uno scarto di lato. Un viaggio da sola, come per la Kathleen di Wall e la Erin di Andrews, un itinerario in cui Grillo Sarchi e Scotti fanno scoperta di cos’è partire, perdersi, o sostare dove magari non lo si sarebbe mai immaginato. Per fare ritorno a una casa necessariamente diversa da quella da cui si è andate via, anche quando la porta, il tetto e le pareti siano rimasti gli stessi.

 

Ad ognuna di queste scrittrici tocca così una tappa, un momento di questo viaggio esteriore e interiore. A Marzia Grillo spetterà la partenza; a Francesca Scotti, che ha vissuto a lungo tra Italia e Giappone, il soggiorno, la sosta prolungata dove proprio nella lentezza possono compiersi minuscole, paradossali trasformazioni (il tempo lento della tartaruga che il piè veloce Achille nel paradosso di Zenone non riesce mai a raggiungere); ad Alessandra Sarchi, infine, il ritorno a luoghi che sono palinsesti di sé stessi, a tempi che possiamo immaginare come i supplementari decisivi di una partita durata tutta la vita. Parlando di storia come viaggio, metafora classica se mai ve ne furono, potremmo invocare un grande nome di tutte le teorie della narrazione, il formalista russo Vladimir Propp e il suo “Morfologia della fiaba”. E nelle fiabe, come ci ricorda anche un’altra affermata narratrice, Simona Vinci nel suo bel saggio “Mai più sola nel bosco” (Marsilio), sui racconti dei fratelli Grimm che l’hanno accompagnata nell’infanzia, a mettersi in viaggio sono quasi sempre i figli e i fratelli minori, le sorelline, le star più inverosimili, quelli da cui non ci si aspetta nulla, che non hanno ricevuto insieme al certificato di nascita un destino previsto.

E al di là dello stato anagrafico, indossano questa minorità come un mantello i protagonisti e le protagoniste dei racconti del “Punto di vista del Sole” di Marzia Grillo. In primo luogo l’esile e feroce Ginevra, improbabile e determinata campionessa di backgammon, in un racconto che si intitola proprio “Odissea”. Unica donna, anzi adolescente in un mondo tutto al maschile che regge a fatica la concorrenza con il poker online, l’intelligente e solitaria Ginevra dagli occhi famelici appartiene alla stessa famiglia della “Regina degli scacchi”.

La bambina prodigio Beth Harmon del romanzo dell’autore americano Walter Tevis (Minimum Fax, traduzione di Angelica Secchi), interpretata da Anya Taylor-Joy nella miniserie Netflix di successo. Se “Odissea” è sostanzialmente una narrazione realista, gli altri racconti di questa raccolta sono più spesso innervati di una tramatura fantastica, fluida come l’acqua che inonda la sala dove due ex fidanzate tentano un precario, pericoloso riavvicinamento in Narratori onniscienti, ipnotica come la superficie dell’acqua del lago dove un’altra coppia mette in scena una sequenza incessante e progressivamente sempre più insensata di richieste di matrimonio seguite da rifiuti ne “Il cigno”. L’irruzione del fantastico segna quel momento, concretissimo, in cui la realtà di tutti i giorni si rivela insufficiente, in cui appena il racconto finirà non potremo fare altro che affrontarla. Il momento in cui l’abbrivio della partenza e la vitalità della giovinezza si placano, le figlie e i figli smettono di essere tali per diventare genitori o semplicemente adulti, e davanti a loro si aprono le terre piatte, gli altopiani assolati della maturità, di cui è difficile intravedere la fine.

All’ingresso in questa terra della maturità – magari in treno, con addosso un abito giallo stampato a conchiglie – paghiamo il pegno d’entrata ai fantasmi, come la bambina Michiko del racconto “La prossima fermata” nel “Tempo delle tartarughe” di Francesca Scotti. Le nostre care ombre dovranno scendere prima di noi, oltre questa prima tappa del viaggio non potranno accompagnarci, ma potremo indugiare ancora insieme sulla sabbia fresca di una spiaggia coperta di aghi di pino. A differenza di coloro che hanno lasciato la vita troppo presto, faremo come le conchiglie, che creano un guscio per proteggere una carne troppo morbida. E come nel racconto che chiude la raccolta, “Calendario lunare”, impareremo a onorare questi silenziosi compagni della memoria, i fantasmi, nella nostra immaginazione, e a farlo con piccoli gesti di vita. Per esempio, piantare sementi e bulbi, o piantine di fragole, in un’aiuola di erba bruciata che sembra un parcheggio davanti alla vetrina di un bar. “Il Tempo delle tartarughe” è fatto di pazienza, di allucinazioni, di delusioni che sono riconoscimenti di realtà, a volte, non sempre, di guarigioni. Il tempo fermo, sembra dirci Francesca Scotti, in realtà è tutto meno che immobile.

A questa immobilità insieme gioiosa e malinconica potremmo essere strappati in un istante, come suggerisce il titolo della raccolta di Alessandra Sarchi, “Via da qui”. Così è nel primo racconto, “La tana”, per la giovane Monica, che perde a causa di un incidente la compagna Evelyn, che non ha mai parlato di lei alla sua famiglia. Oppure, anche questa è una possibilità, sembra dirci Sarchi, saremo noi stessi, quasi facendo un colpo di testa, quasi su due piedi, a sbalzarci via da quello che ha smesso di sembrarci un mondo abitabile, che sia una città una relazione o un continente, magari per tornare a cercare casa nel luogo che anticamente chiamavamo casa. Come, nel racconto intitolato “L’argine”, fa Ines, che per il marito David si è trasferita negli Stati Uniti, quando il suo matrimonio si avvia alla fine e lei stessa è costretta a rendersi conto che anche l’amore può essere una forma di fuga, e magari da sé stessi. Abbiamo viaggiato a lungo, sembra dirci Alessandra Sarchi, e sappiamo che forse non ci è stato utile, non per lo scopo che ci eravamo prefissi, ma in realtà il viaggio sarà servito a un altro fine. A far nascere una versione di noi stessi che ancora non conosciamo, e il paradosso è che, per imparare a conoscerla, dovremo rimetterci in viaggio. Ed è in questo ritornare per, forse, un giorno ripartire che ritroveremo quella specie di speranza che ci appare solo quando torniamo a essere corpi in movimento, come Annamaria alla fine del racconto intitolato “Cherry Street”: “Poi con metodo si mette a raccogliere le sue cose e a infilarle dentro sacchi e valigie. Quando ha finito, mentre Monty l’aspetta col motore acceso, chiude la porta e sul fondo della buca per le lettere lascia cadere le chiavi insieme al pensiero di un’altra sé stessa”.

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