Ogni tanto Hans Ruesch viene riscoperto. Succede che per un motivo o per un altro, per un film o per una nuova traduzione, torna a galla uno dei suoi romanzi. E ogni volta lettori e critici si sorprendono scoprendo questo personaggio singolare, uno svizzero nato a Napoli che in quasi cent’anni di esistenza ha inanellato tre vite del tutto slegate una dall’altra.
Lui direbbe sicuramente che la più importante è stata l’ultima, quella di attivista in prima fila nella guerra agli esperimenti sugli animali. Editori e produttori però preferiscono tenerla in sordina, nasconderla dietro l’etichetta di un non meglio precisato “attivismo animalista”: parlare di vivisezione non sembra un buon modo per attirare lettori. Meglio puntare sul richiamo del campione di Formula 1, per ravvivare il fascino delle avventure raccontate da questo Salgari degli inuit.
La carriera di pilota è stata lunga e piena di successi, anche se non è finita bene. Tra il 1932 e il ‘39 Ruesch colleziona 27 vittorie in gran premi in tutta Europa. Forse perché è nato e cresciuto a Napoli e quindi padroneggia la lingua, guida auto italiane: Alfa Romeo, Ferrari, Maserati. In corsa accanto a lui ci sono campioni che resteranno nella storia, come Manuel Fangio o Tazio Nuvolari.
Meno famoso, oggi, “Rudi” Caracciola: eppure è proprio a lui che Ruesch nel 1937 dedica il suo primo libro, “Il numero uno”, che nel 1957 diventa un film con Kirk Douglas. Pochi anni prima, nel ‘53, Ruesch aveva chiuso tragicamente la sua carriera di pilota: tornato per un raduno di vecchi campioni, esce di strada, ferisce varie persone e uccide un poliziotto. Fine delle corse, e avanti con la carriera di scrittore, ancorata ai corsi di scrittura creativa che Ruesch aveva seguito a New York alla fine degli anni Trenta, dopo essere fuggito da Parigi una settimana prima dell’arrivo dei nazisti.
Delle tre vite di Ruesch, è quella di scrittore a riportarlo in auge di tanto in tanto. Come sta accadendo adesso, complice forse la necessità collettiva di romanzi d’evasione per difendersi dalla pandemia. Un passaparola ha accolto la ricomparsa nelle librerie italiane, alla fine dell’anno scorso, del “Paese dalle ombre lunghe”, avventura tra i ghiacci polari di Ernenek e Asiak, marito e moglie legati da affetto e bisticci.
È il ritratto idilliaco della vita di “innocenti selvaggi” (così suonava il titolo originale del film che ne è stato tratto), che danno la caccia all’orso armati solo di schegge di osso di balena, sgranocchiano pelle secca e tendini di animali e considerano il fegato di foca fermentato un’assoluta leccornìa. Soprattutto, lasciano morire senza sensi di colpa gli esseri inutili (anziani di ogni sesso e femmine appena nate) e prestano senza alcuna gelosia la moglie a ogni conoscente che abbia bisogno di sfogarsi. Un idillio destinato a scontrarsi con l’incontro con l’uomo bianco, che porta liquori, armi, soldi e il veleno più pericoloso di tutti: il cristianesimo.
Pubblicato nel 1950 in inglese e in italiano, in una versione firmata per Garzanti da Nash Hercus, anagramma e pseudonimo dello stesso Ruesch, “Paese dalle ombre lunghe” scorre con grande stile nella nuova traduzione Daniele Petruccioli per Einaudi, che riesce a rendere accettabili i goffi tentativi dell’autore di imitare una lingua che non conosceva affatto. Gli esquimesi di Ruesch non dicono mai “io” ma sempre “qualcuno”, mogli e figlie si rivolgono ai maschi sminuendosi ogni volta con l’introduzione «una stupida donna direbbe che...».
Il fatto è che degli esquimesi Ruesch aveva solo conoscenze di seconda mano: un film del 1933, “Eskimo”, e i libri di Fridtjof Nansen, Knud Rasmussen, Franz Boas, ai quali nell’introduzione rimanda «chiunque sia interessato a una trattazione scientifica dell’argomento». Chi invece ha apprezzato la versione di Ruesch, ne può trovare un seguito in “Back to the top of the world”, pubblicato nel 1973 e dedicato alle avventure del figlio di Enernek e Asiak.
Nel 1961 “Paese dalle ombre lunghe” diventò un film, intitolato in Italia “Ombre bianche” per richiamare le “Ombre rosse” di John Ford. Nella totale mancanza di attori inuit, la spiritosa e indimenticabile Asiak era interpretata da un’attrice giapponese, Yoko Tani, mentre a vestire i panni di Ernenek era il poliedrico Anthony Quinn, messicano dagli occhi allungati che Hollywood considerava abbastanza particolare da poter interpretare ogni personaggio esotico: non solo un esquimese ma un arabo (in “Lawrence d’Arabia”), un cretese (“Zorba il greco”) o perfino un italiano (“La Strada” di Federico Fellini).
Come gli inuit abbiano giudicato il racconto che ne fece Ruesch non lo sapremo probabilmente mai. Non sembrano aver destato un entusiasmo inestinguibile tra i lettori italiani “I mammà e papà”, affresco del dopoguerra a Napoli, o “Com’esser poveri”, ambientato nella penisola sorrentina – gli unici romanzi su posti e popoli che lo scrittore conosceva davvero.
Ha avuto successo tardivo invece un altro ritratto di un popolo sconosciuto a Ruesch, gli arabi, ai quali lo scrittore dedicò un romanzo, “South of the heart”, che in Italia fu chiamato “Il paese dalle ombre corte”. Una storia di onore e vendetta, amicizia e passione ambientata negli anni in cui viene scoperto il petrolio nella penisola araba, terra che Ruesch non risulta aver mai frequentato: il lungo giro dell’Africa a cui dedicò vari mesi prima della carriera di pilota non toccò Paesi arabi.
Eppure nel 2011 Tarek Ben Ammar, storico amico di Craxi e socio di Berlusconi, ha investito 40 milioni di dollari per farne un film, girato in una Tunisia in fermento per le primavere arabe. “Il principe del deserto” ha un regista francese, Jean-Jacques Annaud, un protagonista franco-algerino,Tahar Rahim, una protagonista indiana (Freida Pinto è l’amata principessa Lallah). Il sultano Nasib invece è lo spagnolo Antonio Banderas, già visto in vesti arabe ne “Il tredicesimo cavaliere”, trasposizione del libro di Michael Crichton ispirato alla vera storia di un misterioso manoscritto arabo arrivato nel Medioevo in Svezia.
Chissà cosa avrebbe pensato Ruesch di questo nuovo tuffo nel mondo del cinema, lui che è morto nel 2007 dopo aver dedicato quasi quarant’anni solo alla lotta contro la vivisezione. Una passione che lo portò a creare una fondazione ancora attiva, Civis, “per una medicina senza vivisezione”, a scrivere diversi libri (il più famoso è “Imperatrice nuda”), e ad affrontare processi in molti paesi in cui essi furono tradotti.
Uno scherzo del destino, per l’ex pilota che prima di allora in tribunale c’era finito solo per questioni di letto: lo ha ricordato sul “Corriere della Sera” Sandro Orlando, divertito dal fatto che Ruesch potesse essere il vero padre di un presunto figlio illegittimo che Charlie Chaplin non riconobbe ma mantenne per tutta la vita.
Melania Mazzucco sulla “Repubblica” invece sottolinea un rischio che dovrebbe saltare all’occhio del lettore contemporaneo del “Paese dalle ombre lunghe”, quello dell’appropriazione culturale: un tema scottante soprattutto ora che di inuit si parla per le terribili scoperte di cadaveri di bambini strappati alle famiglie in Canada (e se pensate che barbarie simili non riguardassero la civile Europa, leggete “Labambina” di Mariella Mehr, sulla gestione dei rom nella Svizzera degli anni Cinquanta).
Su come sia nata la vocazione di Ruesch per la lotta alla vivisezione abbiamo solo due indizi: la morte del fratellino Konrad, ucciso da un farmaco sperimentato su animali, e il lavoro come direttore di una collana editoriale di libri scientifici. Di certo Hans non aveva studiato medicina come suo padre, rinunciando a quella che poteva essere una tranquilla carriera nella clinica fondata a Napoli da quel medico svizzero attirato in Italia dal clima e dalla necessità di gestire da vicino le industrie tessili di famiglia. La clinica Ruesch è ancora lì, nel cuore di Napoli, da dove l’erede che ne portava il nome è partito per iniziare a inanellare le sue tre vite.