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Cultura
marzo, 2022

Francesca Marciano: «Mi sono sempre un po’ sentita una traditrice della mia lingua madre»

L’autrice scrive per il cinema in italiano e i suoi romanzi in inglese. E ha deciso di tradurre personalmente la sua ultima raccolta di racconti. “C’è ricchezza e sofferenza nell’usare due linguaggi. È come essere sempre bigami, divisi perfettamente a metà”

Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi.
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Francesca Marciano scrive per il cinema in italiano e i suoi romanzi in inglese (tradotti in quindici lingue). Indimenticabili molte sue sceneggiature: nel cinema ha lavorato con Carlo Verdone (“Maledetto il giorno che t’ho incontrato”), Bernardo Bertolucci (“Io e te”), Gabriele Salvatores (“Turné”), Cristina Comencini (“La bestia nel cuore”), solo per citare alcuni nomi.

È tra le poche scrittrici italiane ad essere stata recensita dalla critica letteraria più influente, e feroce, del panorama americano: una come Michiko Kakutani, ex critica del New York Times (e Pulitzer per la critica), tra le artefici del successo di scrittori come David Foster Wallace, Ian McEwan e Jonathan Franzen (oltre che impietosa stroncatrice di autori del calibro di Philip Roth), di Francesca Marciano ha detto che ha un grande talento: le ricorda quello di Alice Munro.

Come è arrivata a pubblicare negli Stati Uniti?

«Per caso».

Si dice sempre così...

«Mi creda, non lo avrei mai immaginato. Parlo inglese da quando ero bambina, poi giovanissima sono andata a vivere a New York e in quel periodo, a vent’anni, ho cominciato a pensare che volevo scrivere, e mi sono detta: “Voglio fare la scrittrice”. Così ho cominciato a scrivere delle cose per me, nella lingua in cui ero immersa e che avevo adottato allora. È stato un gesto automatico, dato che vivevo, pensavo e sognavo in inglese. Tutt’ora mi trovo più a mio agio a esprimere le cose più intime in quella lingua. Nel mio cervello la parte letteraria parla inglese. Non so esattamente perché, ma è così. Accade. Cosa che invece non vale per la sceneggiatura: mi piace farlo in italiano. Mi ci sento più a mio agio».

Lei ha compiuto un processo inverso, rispetto ad altri narratori italiani: ha esordito in inglese.

«Il mio primo romanzo l’ho scritto mentre vivevo in Kenya da quasi dieci anni. Essendo ambientato lì, i personaggi parlavano inglese tra loro e mi è venuto spontaneo scriverlo in quella lingua. Una volta che il testo era pronto un’amica mi ha suggerito di mandarlo a un agente britannico, che aveva già fatto pubblicare storie di donne e di Africa (per esempio Kuki Gallman). Lo faccio, glielo mando, a Londra. Passano quarantotto ore e lui mi contatta e mi invita a pranzo e mi informa che ci sono sei editori interessati. Tre giorni dopo il miracolo: “Rules of the wild”, viene acquistato dalla casa editrice americana Pantheon Books. Era il 1998. Da quel momento ho continuato a pubblicare con Pantheon in America lavorando sul testo con un’editor».

Com’è lavorare con un editor americano?

«Faticoso ma alla fine il risultato si vede. Loro entrano nel testo anche a livello strutturale spingendo lo scrittore perché scavi fino all’osso. È un lungo lavoro, fatto di critiche e dubbi, che mette spesso in crisi l’autore. A volte ho lavorato sulle revisioni per un anno e più».

"Animal spirit”, la sua ultima raccolta di racconti, uscita in Italia nel 2021 per Mondadori, è il solo libro che ha anche tradotto personalmente. Come mai?

«Per impugnare di nuovo la mia voce».

In che senso?

«Tradurre ha la stessa radice di tradire. E, in fondo, mi sono sempre un po’ sentita una traditrice della mia lingua madre. Anche perché in Italia continuano a chiedermi di rendere conto di questa “anomalia”. È la prima domanda che mi fanno: perché in inglese? L’inglese e l’italiano sono due lingue molto diverse. Non è facile, né automatico essere un bravo traduttore. Sapere bene una lingua non basta. L’inglese è più conciso dell’italiano. Ho lavorato molto per restituire quella concisione e secchezza e anche lo humour. Riportare questo libro nella mia lingua, nel mio paese, è stato importante: mi ha fatta sentire che stavo tornando qui come scrittrice. Usare due lingue nella propria vita è come essere bigamo, diviso a metà. C’è ricchezza e sofferenza e una certa schizofrenia. La lingua cambia anche la nostra personalità».

Dopo anni di vita all’estero, ora vive a Roma; si sente a casa?

«Sono tornata pensando che non sarei rimasta a lungo. Mi serviva una base e credo di averla trovata. Da una parte c’è la mia famiglia del cinema con cui lavoro da anni. Dall’altra Roma mi offre una buona gestione del mio tempo, dei miei spazi. Cerco tuttavia di viaggiare regolarmente e di tenermi sempre vicini i luoghi che amo, perché sono una parte fondamentale del nutrimento di cui ho bisogno».

Trova che la letteratura italiana contemporanea sia troppo concentrata su se stessa, con storie circoscritte entro i propri confini?

«Gli scrittori italiani amano scrivere di quello che gli è vicino. Non abbiamo una tradizione di viaggi e avventure e imprese coloniali come gli anglosassoni e gli olandesi o i tedeschi. Né un immaginario in cui ci identifichiamo fuori dai nostri confini. Forse per questo non ci rispecchiamo nei racconti di realtà lontane, perché non c’è un nostro vissuto nel quale ci possiamo identificare».

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