Memoria, quel mistero profondo tra cielo e terra intorno a Tilda Swinton

Il film di Weerasethakul culmina in un crescendo che deve qualcosa a Borges. Un’esperienza da godere rigorosamente al cinema

Nel 2010 un artista e regista thailandese noto solo ai cinefili più estremi vinse Cannes con un film più bizzarro e visionario del suo titolo, “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”. In giuria sedeva Tim Burton e quella palma inattesa fu messa sul conto del gusto per l’invenzione e la diversità culturale. Nel frattempo cinema e tv sono andati in direzione opposta esasperando la dittatura dello storytelling fino a rendere quasi iniziatiche esperienze come quelle proposte da Weerasethakul. Che però ha consolidato la sua fama al punto di girare un film in Colombia con un cast internazionale dominato da Tilda Swinton.

 

Chi al cinema cerca chiarezza può fermarsi qui. Gli altri si armino di pazienza perché se la prima metà di “Memoria”, tutta lentezze e piste interrotte, mette a dura prova, il resto culmina in un crescendo che deve qualcosa a Borges e molto alla fede in un cinema fondato sulla capacità di aprire la mente e i sensi alterando in chiave quasi mistica - ma l’espressione è fuorviante - la nostra idea della realtà (sconsigliata la visione in tv, anche se tra qualche mese sarà su Mubi).

 

Semplificando a colpi di accetta, la botanica Jessica (Swinton) vaga per Bogotà ossessionata da un rumore misterioso che la perseguita (ricordo? allucinazione? altro?). Tra ingegneri del suono bravissimi ma forse fantasmatici, e teschi risalenti a 6mila anni fa, l’odissea della botanica inglese procede a spirale passando attraverso una sorella malata, pericolose ma invisibili tribù amazzoniche. E un pacato colombiano che, ricordando alla perfezione ogni istante vissuto (come il Funes di “Finzioni”), non è mai uscito dal suo villaggio né, ironicamente, ha perso tempo al cinema.

 

La soluzione del mistero, se di soluzione si tratta, sta in una lunga sequenza “montana”, altro non diremo, che è fra le cose più inattese e più belle viste (e ascoltate) su uno schermo da anni.

 

Qualcuno dirà che i modi della performance si addicono a certi percorsi forse più della forma-film, con le sue inevitabili ipoteche narrative. Ma nessuno come Weerasethakul conosce l’arte di creare connessioni inaspettate tra i vivi e i morti, l’umano e l’animale, il passato e il presente. Difficile, oggi più che mai, tenere insieme la terra e il cielo con tale grazia. Prendere o lasciare insomma, e noi prendiamo. In sala dal 16 giugno.  

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