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Cultura
giugno, 2022

Diane Arbus, Bettina Rheims e le altre, cinquanta sguardi che hanno cambiato il mondo

Quaranta donne del passato. E dieci artiste contemporanee. A Firenze un confronto che riscopre grandi professioniste dell’obbiettivo. Tra ritratti, insolite sperimentazioni, emozionanti reportage

Brave per caso: è l’impressione che lasciano gli ultimi esempi di fotografe scoperte con grande successo dai media e dal pubblico. Prima Vivian Maier: la bambinaia di New York che non è mai riuscita a fare una professione di quell’hobby a cui si dedicava con passione smodata, e che ha lasciato in un deposito migliaia di negativi e rullini mai stampati. Poi Masha Ivashintsova, che ha nascosto in soffitta 30mila foto fatte in famiglia o per le strade della Leningrado sovietica, ritrovate dalla figlia vent’anni dopo la sua morte. Brave sì, ma non professioniste. Dilettanti di genio, certo, ma – il commento sottinteso – vuoi mettere con i fotografi veri, i maschi?

La linea di confine della lotta per portare maggiore riconoscimento all’opera delle donne in ogni ambito culturale attraversa anche il mondo della fotografia. Ed emerge nei dettagli: come il  punto esclamativo che chiude il titolo della mostra “Fotografe!”, confronto tra opere degli Archivi Alinari e produzioni contemporanee (fino al 2 ottobre a Firenze, tra Villa Bardini e Forte di Belvedere). In mostra "vintage prints”, album e negativi di oltre quaranta fotografe, in molti casi inedite, a partire dalle prime dagherrotipiste degli anni ’40 dell’Ottocento per arrivare a Diane Arbus, Bettina Rheims, Lisetta Carmi. Accostate a dieci tra le artiste italiane più interessanti che lavorano con la fotografia.

Curata da Emanuela Sesti e Walter Guadagnini, l’esposizione non si propone nessun revanchismo, nessuna riscrittura della storia. «Lungi da noi l’idea di bruciare degli idoli o di rovesciare delle statue: desideriamo invece costruirne delle altre, per un racconto più ricco, più giusto», scrivono i curatori nel catalogo edito da Mandragora, citando la monumentale “Histoire mondiale des femmes photographes” di Marie Robert e Luce Lebart. L’esposizione ha un altro fine, non meno ambizioso anche perché doppio: proporre un canone delle migliori fotografe del passato, scelte da Sesti tra i tesori dell’Archivio Alinari, e consacrare il lavoro di una selezione di artiste contemporanee, identificate da Guadagnini tra le protagoniste di altre mostre da lui curate. In un confronto che pone in dialogo presente e passato non nel nome di una rivendicazione di genere, ma del linguaggio artistico.

«Le donne hanno sempre lavorato con la fotografia», ribadisce Sesti, «e fin dalle origini troviamo le loro opere sia come professioniste che in ambito amatoriale: quello che succedeva anche per gli uomini, insomma». Certo, il numero è minore – «non c’è confronto tra le poche decine di nomi dell’Ottocento e la quantità di artiste che oggi operano con la fotografia», fa notare Guadagnini – e il problema del riconoscimento personale delle prime professioniste è evidente fin dalle più antiche immagini in mostra. Bertha Beckmann, che è considerata la prima professionista d’Europa, si è sempre firmata “Wehnert-Beckmann”,  anteponendo al suo il cognome del nome del marito. Non sappiamo neppure il vero nome delle due francesi che si firmavano semplicemente “vedova Debureau” e “madame Leroux”, mentre Madame d’Ora era la viennese Dora Philippine Kallmus, titolare di uno studio insieme ad Arthur Benda.

Anche nello scegliere uno pseudonimo, la belga Bernardine Lejeune unì le prime due lettere del suo cognome a quelle del marito, Jean Louis Bargignac: il risultato è Leba, nome che mantenne anche quando, da vedova, continuò da sola il lavoro dello studio fotografico. Ancora all’inizio del Novecento, a Trieste, Wanda e Marion Wulz devono la professione al caso: dal momento che non aveva avuto maschi, il padre Carlo decise di affidare alle figlie lo studio che aveva ereditato da suo padre Giuseppe. Le sorelle impararono così bene da diventare due nomi fondamentali del settore: «Anche se a comparire era quasi solo Wanda: Marion preferiva restare in seconda fila», commenta Sesti.  

Gli inizi della storia della fotografia sono fatti principalmente di ritratti, e le opere delle donne non fanno eccezione. Su questa caratteristica Guadagnini ha costruito il primo filone del confronto con la artiste contemporanee: «La mostra ha uno scheletro cronologico ma procede per confronti tra le fotografe di ieri e di oggi su temi comuni. Per la prima parte ho scelto autrici che lavorano con il ritratto e l’autoritratto, come Federica Belli e Sofia Uslenghi». In mostra, in questa sezione, il visitatore incontra immagini famosissime. Come il volto di una bellissima sconosciuta, immortalato da Wanda Wulz, che qualche lettore ricorderà sulla copertina di un romanzo di David Grossman, “Che tu sia per me il coltello”, nella traduzione pubblicata da Mondadori. O l’autoritratto dell’artista triestina intitolato “Io + gatto”: una somma di negativi che, racconta Sesti, il visitatore vedrà scomposta nelle immagini originarie: «L’autoritratto di Wanda da una parte, e dall’altra quello del gatto – anzi della gatta, perché il mondo delle sorelle Wulz è tutto femminile. Anche nel lavoro di ritrattiste scelgono attrici, atlete, scrittrici affermate: un impegno di ricerca identitaria e professionale che fa del loro studio un punto d’incontro fondamentale per le donne dell'epoca».

Altro campo di confronto, l’archivio: «E questa è una sezione particolarmente divertente perché le opere di artiste del passato e quelle di Francesca Catastini sono mischiate tra loro nell’esposizione», dice Guadagnini. Altro focus particolarmente interessante è quello antropologico, vicino al reportage: sono le foto degli anni Settanta di Marialba Russo accostate a quelle di Alba Zari, la più giovane delle contemporanee. I travestiti di Lisetta Carmi affiancati alle guaritrici di Rosaelena Ramistella. O le immagini dei viaggi in Abruzzo o in Africa di Edith Arnaldi, in arte Rosa Rosà: «Una dilettante geniale, scelta anche per la Biennale di Venezia», racconta Sesti. «Negli anni Trenta, che erano anni certo non facili per l’Italia, ha girato la Ciociaria e l’Abruzzo facendo fotografie che sembrano andare in parallelo rispetto a quelle commissionate negli stessi anni in America dalla Farm Security Administration a Dorothea Lange sulla Grande Depressione». Le immagini di donne di paese di Edith Arnaldi dialogano con quelle delle adolescenti di Arianna Arcara o di Marina Caneve. Che ieri come oggi si nascondono dietro all’obiettivo per riuscire a guardare senza veli il mondo. 

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