C’è una data possibile per capire la diffusione contemporanea dell’autofiction, che non è semplicemente una postura letteraria o una moda editoriale, ma la conseguenza di una mutazione non dissimile da altri spartiacque, dall’invenzione della stampa alla nascita di quella televisione definita paradossalmente “della realtà”.
La data è il 2006: l’anno in cui Time uscì con una copertina a specchio dove il lettore poteva vedere il proprio volto riflesso e sentirsi “persona dell’anno”, come l’anno prima i tre “buoni samaritani” Bono, Bill e Melinda Gates e l’anno successivo, ma guarda, Vladimir Putin. Erano gli anni Zero, e dunque il momento felice dei blog, dei fanwriter, dei videogamers, della cultura popolare che invece di essere indirizzata dal mercato si indirizzava da sola, trasformando i consumi in partecipazione. Almeno, così credevamo: credevamo che quello You, quel Tu che campeggiava sulla copertina di Time fosse la prima fiammella di un immaginario a cui tutti avremmo potuto contribuire con le nostre parole e le nostre immagini e che la scrittura, la fotografia, la musica, si sarebbero aperte al contributo di una moltitudine geniale.
Non è andata esattamente così: e avremmo dovuto immaginarlo già dalla stagione, immediatamente precedente, dei reality televisivi: perché quel “Tu” significava anche che il concetto stesso di realtà veniva sdoppiato. Chi erano davvero, infatti, i concorrenti del Grande Fratello? Quelli che venivano mostrati in televisione coincidevano con le persone reali oppure Salvo, Rocco e Marina interpretavano un ruolo dove la propria personalità veniva levigata, abbellita oppure esasperata ad arte? Più tardi, avremmo imparato che erano vere le due cose, allo stesso modo in cui, quando ci scattiamo un selfie, il nostro volto è reale ma viene schiarito e reso luminoso grazie ai filtri prima di diventare pubblico su Instagram.
A intuire che la televisione non era un oggetto narrativo con cui giocare impunemente fu David Foster Wallace, che nel 1990, in “E Unibus Pluram”, scrisse che la cultura televisiva si era evoluta a livelli così alti da sembrare invulnerabile, fino a inglobare la stessa letteratura: «La realtà è che, da almeno dieci anni a questa parte, la televisione astutamente assorbe, omogeneizza e ripropone la stessa cinica estetica postmoderna che una volta incarnava la migliore alternativa alla seduzione della letteratura bassa, commerciale, ultra-superficiale. Capire come la televisione sia riuscita a far questo è sinistramente affascinante».
Poi sono venuti i reality. Poi è venuto Facebook. Nel 2007, quando cominciò a diffondersi in Italia, Facebook era ancora innocente e teneva separate realtà e rappresentazione: chiedeva all’utente di scrivere in terza persona, come in un possibile romanzo che raccontasse il mondo. I like non c’erano. Arriveranno nel 2010 e nel 2011 si passa alla prima persona, e a quel punto la narrazione, piccola o grande, comincia a coincidere con la realtà. Da allora, non c’è stato più bisogno di guardare le vite degli altri in un reality. Siamo quel reality, o quell’autofiction: senza produttori televisivi e senza editori. Basta scrivere, e scrivere “io”.
Dodici anni dopo, sappiamo tutto di tutti. Guardiamo, avidi e vergognosi, la foto che documenta la morte di una madre, la mano del figlio o della figlia nella sua sul bianco delle lenzuola d’ospedale. Accogliamo nella nostra vita ciò di cui quelle degli altri si compongono, e scriviamo insieme forse un database, sicuramente una storia collettiva, con le piccole e grandi cose che la costruiscono. Un nuovo paio di scarpe. Una coppa di gelato o di vino o di macedonia. L’imbarco in aereo. Ai tempi della pandemia: il primo selfie con la mascherina. Più avanti: tutti i selfie con la siringa che si infila nel braccio per il vaccino. In tempi normali: le prime parole dei figli, le seconde e le terze, le pagelle, la laurea con la corona d’alloro (e poi il matrimonio e i nipotini e si ricomincia). La pelle liscia del cranio durante una chemioterapia. La confessione di un nuovo amore. L’annuncio di un suicidio.
Ma per quanto continuiamo a sapere, ne vogliamo ancora. Ed è per questo che in luogo di quella che veniva chiamata Alt Lit (Alternative Literature, la letteratura che nasce con l’immersione in rete), oggi nasce e prospera la Selfie Lit o semplicemente autofiction: si usano parole diverse per raccontare la stessa cosa. Noi stessi. Non è una moda ma una mutazione, simile e diversa a quella che ha permesso di passare, grazie agli smartphone, dalle cartoline con il Colosseo al selfie con se stessi in primo piano e il Colosseo alle spalle. Non più “guarda questo”, ma “guarda dove sono”. Non più finestre, ma specchi.
Ora, non necessariamente gli specchi dicono la verità come chi scrive autofiction pretende e come chi legge desidera. L’esigenza del vero, in effetti, precede i social. In una gloriosa intervista di Joyce Carol Oates a Margaret Atwood, pubblicata nel 1978 sul New York Times, Atwood racconta: «I lettori a volte si sentono ingannati quando dico loro che un libro non è autobiografico, cioè che gli eventi descritti non sono accaduti a me. Stavo parlando di questo durante una lettura, spiegando che il personaggio centrale non ero “io”. Poi ho letto un capitolo di “Lady Oracle”, dove la ragazzina grassa frequenta la scuola di ballo. La prima domanda al termine della lettura è stata: “Come hai fatto a perdere così tanto peso?”».
Ma l’inganno c’è comunque. L’autofiction è come il selfie: ovvero, come sostiene il sociologo olandese Geert Lovink, un atto di protezione nei confronti del nostro io: «Il selfie non è uno strumento per conoscere se stessi, ma per controllare se stessi». Per eliminare rughe e cellulite, mostrandoci più giovani e magri, e ugualmente levigando e rendendo accettabile, in un libro, anche la parte oscura delle nostre vite. Probabilmente, tutto questo non viene percepito come finzione da chi scrive, e neanche da chi legge. Vero o falso, non importa più.
Questo, attenzione, non è un giudizio di valore. Esistono autofiction di altissima qualità letteraria, quelle di Ernaux e Siti e Carrère, per citarne solo tre, e nate certamente sotto altro impulso. Quel che colpisce, e preoccupa anche, è la mutazione dell’immaginario, non solo letterario: da finestra a specchio, appunto, da narrazione del mondo alla narrazione della piccola porzione di mondo in cui si muove chi scrive, o si è mossa la sua famiglia, sua madre, suo padre (il numero di romanzi sui padri aumenta mese dopo mese). E quell’immaginario del sé sta cambiando oggi la letteratura, ma ha già cambiato la politica, l’informazione, l’idea stessa che abbiamo di collettività. Anche qui, qualcuno l’aveva previsto. La poetessa Adrienne Rich, che nel 1991 scrisse “In quegli anni”, prefigurando un mondo dove si perde traccia “del significato di noi, voi”. E dove però “i grandi uccelli neri della storia” si tuffano in picchiata, spazzando via tutto.