Sono anni che sentiamo parlare di Nollywood, l’industria cinematografica nigeriana: una fucina capace di sfornare a velocità invidiabile nuovi fillm che conquistano il pubblico africano ma che non riescono a superare le barriere culturali e pratiche che la separano dall’Europa. Ora è possibile provarne un assaggio grazie a una serie televisiva in quattro puntate, “Blood sisters”, proposta da Netflix nel quadro delle sue produzioni “legate al territorio”, che propongono al pubblico italiano una commedia rosa polacca e a quello del resto del mondo l’Italia multietnica di Antonio Dikele Distefano.
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Il serial nigeriano, con quel miscuglio di somiglianze e differenze, di richiami a Dinasty e immersione nella società africana, all’inizio ha l’effetto straniante che facevano le prime telenovelas. Ai critici televisivi di allora sembrava impossibile che il pubblico italiano si appassionasse alle storie infinite tanto amate dai telespettatori brasiliani, e invece… La stessa passione imprevista potrebbe scoppiare per queste storie a forti tinte: i colori sgargianti dei vestiti e delle tappezzerie, la pioggia di banconote e i ritmi africani della festa di matrimonio ma anche l’esibizione di sentimenti e passioni che fanno avanzare la trama a forza di pathos e colpi di scena “larger than life”.
Al centro della storia ci sono Sarah e Kemi, amiche per la pelle che si trovano a dover fuggire dopo aver commesso un delitto: Kemi, per salvare Sarah dal suo fidanzato che la considera «il suo punching-ball personale», lo uccide e le due ragazze cercano di evitare non tanto la polizia – incapace e/o corrotta – quanto la famiglia del morto, potente e senza scrupoli. Suspence e ironia, scene madri alla Francesca Bertini e splatter alla Tarantino si alternano man mano che le ragazze cercano di liberarsi del cadavere e si imbarcano in una fuga nei bassifondi di Lagos piena di imprevisti e di brutti incontri.
Nelle quattro puntate della serie diretta da Biyi Bandele e Kenneth Gyang e prodotta dalla EbonyLife Media di Mo Abudu, vera “prima donna” dell’industria cinematografica nigeriana, si dipana un intreccio di azione e ambientazione che mescola le costanti di una famiglia disfunzionale (violenza fisica e psicologica, disprezzo per la debolezza, dipendenza da alcol e droghe) e quelle di una società ferita da corruzione, soprusi e rivalità tra clan. Il contrasto tra il mondo dei ricchi e quello dei poveri è sottolineato dalle ambientazioni, dai colori, dai trucchi: tanto che le attrici diventano quasi irriconoscibili, una volta spogliate della loro armatura di ciglia finte, pettinature improbabili, unghie ad artiglio e collanone.
La via d’uscita dalla violenza e dalla disperazione è la “sorellanza”: quella che unisce le due protagoniste ma anche quella che porta le donne della storia ad affermare sé stesse e a prendere in mano il destino proprio e delle proprie famiglie. Come spesso succede, i personaggi più interessanti sono i cattivi, anzi in questo caso le cattive: da Uduak, la perfida madre di Kola, a Olayinka, moglie dell’altro figlio, che spinge il marito prima a cercare di uccidere il fratello, poi di approfittare della sua morte per prendere il potere nel clan. I genitori di Sarah, da parte loro, sono degli arrampicatori sociali pronti a sacrificare la felicità della figlia sull’altare del balzo economico che deriverebbe dal suo matrimonio con il rampollo di un clan più potente del loro.
E anche se è evidente che questo assaggio di Nollywood, accolto con un notevole successo negli Stati Uniti, è stato cucito su misura per andare incontro ai gusti del pubblico occidentale, è comunque una boccata di novità. Che il pubblico può apprezzare nel mix di lingue della versione originale, che alterna inglese, “pidgin english” e igbo.