In un cinema sempre più ostaggio dei vari “universi” e delle loro leggi estetico-economiche (Marvel, Star Wars etc.), una scommessa come “The Creator” è una benedizione. Fantascienza girata non in studio ma dal vero, in Asia, aggiungendo gli effetti speciali a posteriori, con “solo” 80 milioni di dollari, dal regista inglese dell’ultimo “Godzilla” e di “Rogue One”.
Lo spunto è chiaro e forte: nel 2065 il mondo, ormai dominato dall’Intelligenza Artificiale, è diviso. Di qua l’Asia, dove persone, androidi e “simulant” (androidi quasi umani) convivono in armonia con questa entità in perenne evoluzione (belli i cartelloni: “Dona la tua apparenza, sostieni l’A.I.”). Di là gli Usa, che dopo l’esplosione di un’atomica a Los Angeles hanno dichiarato all’A.I. guerra totale. Naturalmente l’A.I. è una metafora: è il diverso, l’altro da noi. E gli occidentali non sono certo i buoni. Basta vedere la soldataglia che affianca in Asia il protagonista Joshua (John David Washington), agente sotto copertura con un braccio bionico, dunque un po' cyborg pure lui, e una compagna asiatica scomparsa anni prima.
Purtroppo però “The Creator” non sfrutta a dovere i suoi innegabili punti di forza. La potenza, visiva e narrativa, delle macchine, e non pensiamo solo ai “simulant” ma al Nomad, inquietante incrocio fra uno scanner, una stazione orbitante e un bombardiere con cui gli Usa danno la caccia all’A.I., silenzioso angelo sterminatore che tutto vede e distrugge. E la trama para-messianica che vede Joshua scoprire e poi fare quasi da padre a una misteriosa cyber-bambina...
Il meglio insomma sta nel sottotesto e in certi dettagli folgoranti, quei telai da Rivoluzione industriale che sfornano simulant, o la discarica di robot da riciclare che evoca certi ammassi di occhiali e altri effetti personali delle vittime dei lager. Ma il racconto non decolla mai davvero, un po’ come accadeva in un altro bel film di Sci-Fi recente, “Captive State”. Tra prestiti e citazioni, Edwards indica la direzione per tornare finalmente a una fantascienza adulta. Ma si perde un po’ per strada.