Cultura
ottobre, 2023

The Creator, per fortuna c'è ancora chi tenta di fare fantascienza adulta

Un futuro in cui gli Usa dichiarano guerra all’Intelligenza Artificiale. Per raccontare il rifiuto del diverso nelle cronache di attualità. Ma le idee geniali non vengono valorizzate abbastanza

In un cinema sempre più ostaggio dei vari “universi” e delle loro leggi estetico-economiche (Marvel, Star Wars etc.), una scommessa come “The Creator” è una benedizione. Fantascienza girata non in studio ma dal vero, in Asia, aggiungendo gli effetti speciali a posteriori, con “solo” 80 milioni di dollari, dal regista inglese dell’ultimo “Godzilla” e di “Rogue One”. 

 

Lo spunto è chiaro e forte: nel 2065 il mondo, ormai dominato dall’Intelligenza Artificiale, è diviso. Di qua l’Asia, dove persone, androidi e “simulant” (androidi quasi umani) convivono in armonia con questa entità in perenne evoluzione (belli i cartelloni: “Dona la tua apparenza, sostieni l’A.I.”). Di là gli Usa, che dopo l’esplosione di un’atomica a Los Angeles hanno dichiarato all’A.I. guerra totale. Naturalmente l’A.I. è una metafora: è il diverso, l’altro da noi. E gli occidentali non sono certo i buoni. Basta vedere la soldataglia che affianca in Asia il protagonista Joshua (John David Washington), agente sotto copertura con un braccio bionico, dunque un po' cyborg pure lui, e una compagna asiatica scomparsa anni prima.

 

Purtroppo però “The Creator” non sfrutta a dovere i suoi innegabili punti di forza. La potenza, visiva e narrativa, delle macchine, e non pensiamo solo ai “simulant” ma al Nomad, inquietante incrocio fra uno scanner, una stazione orbitante e un bombardiere con cui gli Usa danno la caccia all’A.I., silenzioso angelo sterminatore che tutto vede e distrugge. E la trama para-messianica che vede Joshua scoprire e poi fare quasi da padre a una misteriosa cyber-bambina... 

 

Il meglio insomma sta nel sottotesto e in certi dettagli folgoranti, quei telai da Rivoluzione industriale che sfornano simulant, o la discarica di robot da riciclare che evoca certi ammassi di occhiali e altri effetti personali delle vittime dei lager. Ma il racconto non decolla mai davvero, un po’ come accadeva in un altro bel film di Sci-Fi recente, “Captive State”. Tra prestiti e citazioni, Edwards indica la direzione per tornare finalmente a una fantascienza adulta. Ma si perde un po’ per strada.

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