Cultura
9 dicembre, 2025L’8 dicembre 1965 si chiudevano i lavori del Concilio Vaticano II, la grande revisione tecnico–dottrinale che ha cambiato il volto della Chiesa cattolica. Ma prima che le decisioni diventassero storia, un giovane giornalista si nascose in un confessionale di San Pietro per ascoltare le discussioni proibite alla stampa
Sessant’anni fa, l’8 dicembre 1965, la Basilica di San Pietro celebrava la chiusura del Concilio Vaticano II, la più grande operazione di revisione dottrinale mai vista dai tempi antichi. Mezzo secolo e più è passato da quel giorno, eppure le immagini restano nitide: oltre 2.500 vescovi provenienti da tutti i continenti; l’impressione netta che la Chiesa avesse voltato pagina. Per la prima volta erano giunti in Vaticano anche vescovi africani, latinoamericani e asiatici, rappresentanti delle nuove “chiese” ai confini del mondo. Un mosaico di volti, provenienze e idee che diedero subito il senso di un’assemblea planetaria.
Una rivoluzione “copernicana”
Facciamo un passo indietro: fin dalla sua apertura, il Concilio Vaticano II si trovò ad affrontare delle questioni molto delicate: dalla riforma della liturgia alla libertà religiosa, dal ruolo dei laici alla collegialità episcopale. Il Concilio non fu un semplice aggiornamento liturgico ma il primo vero incontro con la società moderna. Ma il nodo più spinoso riguardava il tema della collegialità, ovvero il rapporto tra il centro romano e le Chiese locali: una questione che rifletteva i grandi cambiamenti sociali, la decolonizzazione, l’emergere di nuove comunità cristiane. Il Concilio cercò di capire come parlare alle donne e agli uomini del tempo: la Chiesa non si limitava più a osservare la società da lontano, ma provava a misurarsi con le trasformazioni concrete della vita moderna.
La storia origliata da un confessionale
Fin dall’apertura, l’accesso della stampa ai lavori del Concilio fu rigidamente controllato. Ed è qui che entra in scena il giornalista Gianfranco Svidercoschi, all’epoca venticinquenne (oggi celebre vaticanista, già vicedirettore dell’Osservatore romano ndr). La mattina dell’apertura dei lavori, quando le porte della Basilica stavano per essere chiuse con il rituale extra omnes, la stampa venne invitata a uscire. Nessun giornalista avrebbe potuto assistere ai primi confronti interni, il Vaticano temeva fughe di notizie. Invece di seguire i colleghi, Svidercoschi percorse rapido la navata, scrutò le fiancate laterali e individuò un confessionale ligneo dove potersi nascondere. Pochi secondi dopo, il silenzio avvolse San Pietro e la prima seduta del Concilio ebbe inizio. Da quel vano di legno, grazie alla conoscenza del latino, Svidercoschi capì immediatamente che i vescovi erano divisi, profondamente. Da una parte il blocco romano, deciso a mantenere saldo l’impianto istituzionale della Chiesa, dall’altra il fronte franco-tedesco, portatore della spinta riformatrice più decisa. Terminata la seduta, il giovane cronista uscì dalla Basilica e corse a dettare il dispaccio. Nel giro di pochi minuti la notizia fece il giro delle redazioni svelando una Chiesa spaccata in due. Sebbene il comunicato ufficiale del Vaticano tentò di attenuare la portata della rivelazione la macchina mediatica era ormai partita. Grazie a quel giovane giornalista nascosto in un confessionale, il mondo scoprì che dentro San Pietro la questione non era solo teologica ma politica e culturale.
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