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Derivati alla deriva

Alla svolta le inchieste giudiziarie sulla finanza ad alto rischio. Conti esteri per Italease, nuove accuse su Parmalat, primi sospetti sui politici

La bolla italiana dei derivati sta per scoppiare in tribunale. I pm milanesi del pool reati economici hanno aperto almeno quattro inchieste su vicende legate all'uso e all'abuso di questi strumenti finanziari ad alto rischio, venduti dalle banche negli anni scorsi anche a migliaia di risparmiatori e piccoli imprenditori. L'indagine più vicina a una svolta esplosiva riguarda Italease. I magistrati avrebbero raccolto indizi concreti di illeciti arricchimenti per manager e intermediari vicini alla banca milanese, che prima della crisi dell'estate scorsa aveva gonfiato il conto economico proprio piazzando derivati alla clientela.

Le recenti scoperte sul caso Italease hanno portato gli investigatori a riesaminare anche le operazioni di finanza strutturata siglate da un gran numero di enti locali, soprattutto Regioni e Comuni, con alcune grandi banche internazionali. Tutte operazioni già al centro di accese polemiche politiche dalla Liguria a Milano, dal Piemonte alla Campania, sulle possibili perdite per le casse pubbliche. Novità in vista anche sui derivati smerciati alle imprese: oltre al fascicolo su Unicredit, dove spunta tra l'altro un'ispezione disposta da Bankitalia all'epoca del governatore Antonio Fazio, il pm Francesco Greco ha aperto un nuovo filone d'inchiesta sulla bancarotta Parmalat che riguarda proprio i derivati. Ma vediamo caso per caso dove portano le nuove piste.

I tesori esteri di Italease
In Borsa il caso Italease era scoppiato già l'estate scorsa, dopo la scoperta che questa banca, sotto la gestione dell'ex amministratore delegato Massimo Faenza, aveva riempito centinaia di clienti di derivati rischiosissimi e non giustificabili con normali esigenze di copertura dai rischi finanziari. Prodotti molto complicati, creati per lo più a Londra da grandi istituti internazionali e rivenduti in Italia. Di qui la scelta di chiudere i contratti con le controparti bancarie. Una decisione che ha costretto Italease a sborsare ben 778 milioni di euro.

L'inchiesta giudiziaria è partita dagli esposti di alcuni clienti e dalle verifiche interne disposte dai nuovi vertici dell'istituto. Si è così accertato, tra l'altro, che ai tempi di Faenza la banca pagava commissioni elevatissime (fino al 20 per cento) ad alcuni intermediari: somme molto superiori alle comuni provvigioni, incassate per lo più da una ristretta cerchia di persone fisiche. Ora, dopo mesi di indagini, la Guardia di Finanza ha scoperto una rete di conti esteri che potrebbe finalmente svelare il vero segreto dei derivati di Italease.

La nuova ipotesi dell'accusa è che le ricche provvigioni destinate agli intermediari venissero in realtà divise con alcuni dirigenti della stessa banca. In nero, naturalmente, con bonifici schermati da società estere. Una divisione della torta, che agli inquirenti sembra una riedizione del sistema Fiorani: il banchiere e i suoi amici che si spartiscono un bottino a spese dei clienti. L'ex numero uno di Lodi lo creava con le scalate, gli indagati di Italease con i derivati.

Avvoltoi sulla Parmalat

È una nuova inchiesta, coordinata personalmente dal procuratore aggiunto Francesco Greco, che nasce da un esposto di Enrico Bondi, il commissario risanatore della multinazionale del latte. La denuncia riguarda alcune tra le più grandi banche del mondo e, secondo gli inquirenti, è "molto circostanziata". Le accuse più pesanti si riferiscono ai derivati comprati da Parmalat nel 2003, cioè negli ultimi mesi di vita prima dello storico fallimento da 15 miliardi di euro. L'azienda di Tanzi non era più in condizione di ottenere finanziamenti e avrebbe usato i derivati per ritardare il crac, con il risultato di aggravarlo. Al centro dell'inchiesta sono finiti i cosiddetti up-front: anticipi che la banca-controparte versa (subito) al cliente che accetta un rischio (futuro) molto più alto.

Un sistema di per sé lecito, ma strumentalizzabile per falsificare i bilanci e nascondere le perdite (rinviandone l'emersione). Secondo i consulenti di Bondi, la vecchia Parmalat sarebbe stata tenuta in vita artificiosamente grazie a una serie sempre più disperata di up-front per un totale di oltre 160 milioni di euro. Incassi solo temporanei, per l'azienda del latte, perchè ampiamente superati dalle perdite sopportate alle singole scadenze dei derivati. Cioè dei prodotti costruiti da grandi banche estere che invece intascavano commissioni e super-profitti sicuri, una volta per sempre.

Unicredit e l'ispezione Bankitalia
Il fascicolo aperto a Milano per ora comprende solo esposti generali presentati da organizzazioni dei risparmiatori come l'Adusbef dopo l'inchiesta giornalistica di Report. La Procura attende denunce circostanziate (con nomi e cifre documentate) prima di far scattare richieste formali alla Consob. Il risultato, che può sembrare paradossale in termini di trasparenza economica, è che per ora neppure il pm Greco ha potuto leggere le dettagliate "contestazioni" che nell'agosto scorso avevano convinto la stessa Consob a multare 34 amministratori e dirigenti di Unicredit Banca d'Impresa (Ubi) e Unicredit Banca Mobiliare (Ubm), compreso il numero uno Alessandro Profumo.

L'atto d'accusa, che "L'espresso" ora è in grado di rivelare, documenta tra l'altro che il gruppo Unicredit era stato oggetto di un'ispezione mirata proprio sui derivati corporate, destinate cioè alle imprese, "dal 29 marzo al 2 settembre 2005", quando governatore era ancora Fazio. Approfondite le indagini sui due anni precedenti, la Consob ha concluso che il gruppo Unicredit ha venduto "a circa 12.700 piccole e medie imprese" prodotti finanziari di tale "sofisticazione ed elevata complessità" da risultare "inadatte alle stesse" aziende clienti, in quanto "prive geneticamente della finalizzazione dichiarata", ossia "non utili a coprire i rischi finanziari di imprese industriali". "Al contrario", la Consob scrive di aver trovato "evidenti tracce di un approccio di tipo opposto", cioè derivati fabbricati per "esigenze di gestione della tesoreria" della banca. A confermarlo è "l'unidirezionalità" della scommessa implicita in questi contratti: citando Bankitalia, la Consob scrive che, se i derivati fossero stati chiusi in piena ispezione al 31 maggio 2005, avrebbero prodotto `perdite potenziali di 1,97 miliardi di euro per i clienti" e "appena di 70 milioni" per la banca.

"Indipendentemente dal segno e dal tipo di prodotto utilizzato, le posizioni assunte dai clienti risultavano già alla nascita gravate da pesanti perdite potenziali, che solo un andamento di mercato particolarmente favorevole avrebbe potuto invertire": rischio che invece è stato "amplificato da una massiccia rinegoziazione", che è risultata "particolarmente remunerativa per il gruppo in quanto ha consentito, in un mercato in via di saturazione, di incamerare ulteriori e ampi mark-up dalla clientela già acquisita".

Con questi derivati, conclude la Consob, il gruppo Unicredit ha "incamerato ricavi per 759 milioni di euro nel 2003 e per 427 milioni nel 2004", quando il ribasso dei tassi ha ridimensionato i margini. Nello stesso biennio, i profitti netti realizzati dagli ingegneri finanziari di Ubm con i clienti della rete Ubi hanno superato i 400 milioni. In un'intervista a "La Stampa", Profumo ha difeso Unicredit con forza, rivelando tra l'altro i primi "dati ufficiali": "Non siamo la banca dei derivati: abbiamo il 24 per cento delle perdite potenziali per il settore delle imprese, che scende addirittura all'11 per le istituzioni pubbliche. Quel che resta, la maggioranza, lo ha qualcun altro".

La mina degli enti locali
Confermando di aver avviato verifiche su "almeno quattro gruppi bancari", il direttore generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, nell'audizione di novembre in Parlamento, ha confermato che i derivati degli enti locali somigliano a bombe inesplose: la stima di perdite attualizzate "per poco più di un miliardo di euro" riguarda solo gli istituti italiani, ma Comuni (come Milano) e Regioni (come Liguria, Campania e Lombardia) hanno firmato i contratti più grossi con grandi banche giapponesi e americane. Su rischi per le generazioni future nascosti in questi derivati pubblici, di entità ancora sconosciuta, indaga il pm Alfredo Robledo con una squadra di fidati investigatori. Che ha già segnalato una prima stranezza: un piccolo derivato inserito nel maggiore. Un prodotto alla rovescia, che non sembra proteggere il cliente, ma azzerare i rischi della banca. Di qui il nuovo interrogativo: i politici non vedevano o fingevano di essere ciechi? Di certo, dopo le scoperte su Italease, i magistrati sono sempre più sospettosi.

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