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Economia
marzo, 2008

La caduta dell'impero americano

Dollaro debole, crisi dei mutui, incubo recessione. E la perdita di prestigio dovuta all'Iraq. Al prossimo presidente il difficile compito di restituire al Paese la sua storica supremazia da New York

Obama ci aveva sperato: voleva chiudere la stagione delle primarie nel Texas di George Bush e tenere il discorso trionfale davanti ai simpatizzanti di San Antonio. E invece Hillary ha vinto e la campagna continua, poche ore di sonno e via in viaggio verso il Wyoming, a cui seguirà il Mississippi e poi la grande sfida della Pennsylvania, il 22 aprile.

Nessuno sa dire quando finirà questa campagna elettorale cominciata oltre un anno fa: "Andremo fino in fondo", ha detto Hillary Clinton che martedì sera sembrava rinata, lasciando intendere di essere pronta ad arrivare fino al caucus di Portorico, il 7 giugno. La netta vittoria in Ohio (oltre a quelle in Rhode Island e in Texas) ha un importante significato simbolico per lei, perché l'Ohio non è solo lo Stato che a novembre può decidere la conquista della Casa Bianca, ma è anche la regione dove la crisi economica ha colpito più duramente: qui negli ultimi anni sono stati persi 225 mila posti di lavoro e la globalizzazione è sul banco degli imputati.

C'è qualcosa di malinconico in questa sfida senza fine: la campagna segue il ritmo delle brutte notizie che ogni giorno arrivano dal fronte dell'economia, il dollaro che sprofonda a 1,53 rispetto all'euro, il petrolio che tocca i 103 dollari al barile, l'indice di Borsa che si inabissa verso quota 12 mila, mentre il Paese si avvita in una recessione che appare inevitabile. Guardando le curve dell'occupazione e degli investimenti si scopre che gli ultimi cinque anni di ripresa economica non sono bastati a riportare gli americani al benessere del 2000: le statistiche di oggi non eguagliano quelle di otto anni fa, prima che l'economia fosse affondata dall'esplosione della bolla di Internet. E il Paese è già sul precipizio di un'altra bolla, quella della casa.

Si tratta di un normale ciclo dell'economia o è il segnale del declino del Paese? È proprio la risposta a questa domanda che segna la differenza tra i candidati. Le primarie sono una lunga seduta di autocoscienza nazionale, nel corso della quale repubblicani e democratici scelgono quale rappresentazione di sé vogliono offrire al mondo. Da una parte c'è l'immagine del soldato McCain, il padre autoritario che non ha dubbi sulla solidità del primato americano e promette virilmente di "restare in Iraq anche cent'anni, se necessario". Dall'altra c'è l'immagine fraterna di Obama, o quella più intellettuale e dirigista di Hillary: i due candidati democratici vogliono uscire dall'Iraq (cartina di tornasole di una caduta di prestigio politico) promettono di governare in modo bipartisan e vedono un'America prima inter pares, consci che il Paese sta percorrendo una strada che porta dritta al declino.

Se c'è una differenza, tra l'America 'rossa' dei repubblicani e quella 'blu' dei democratici, è proprio questa diversa percezione dei cambiamenti in atto nel mondo: "Oggi gli Stati Uniti sono in una situazione simile a quella dell'Impero britannico all'inizio della sua dissoluzione", ci dice al telefono il progressista Paul Samuelson, premio Nobel per l'economia.

Sono parecchi i democratici che condividono la visione di Samuelson. Charles Kupchan, l'economista di Princeton che nel 2002 scrisse 'La fine dell'impero americano', dice a 'L'espresso' che l'Europa sta diventando un "partner alla pari" in termini di potere globale: "L'Occidente non ha più una sola capitale, ma due: la prima è a Washington, la seconda è in Europa, decentrata tra le capitali. Si tratta di una situazione che ricorda l'ultima fase dell'Impero romano e la competizione tra Roma e Bisanzio". Allora finì piuttosto male per i padroni del mondo. Questa volta è necessario un presidente che capisca la svolta in atto, rinunci alle ambizioni imperiali e si adatti alla nuova situazione geopolitica. Obama e Hillary sembrano consapevoli di questa realtà, al contrario di McCain che punta tutto sull'orgoglio patriottico e sul primato nazionale: "Noi facciamo la storia", ha detto martedì sera nel suo discorso di vittoria, come se il futuro dipendesse solo dal suo decisionismo muscolare.

Kupchan sostiene che la continua caduta del valore del dollaro riflette lo spostamento in atto nell'ordine economico del mondo: "Siamo ai primi passi di un aggiustamento economico di lungo termine che sarà doloroso per gli Stati Uniti. Si comincia a intravedere un mondo in cui il dollaro non avrà più il primato mondiale come moneta di riserva".

Nel corso della recente conferenza di Davos molti economisti hanno sostenuto l'ipotesi, apparentemente paradossale, che nell'era globale l'economia del mondo diventerà regionale. Kupchan condivide questa previsione: secondo lui nei prossimi decenni l'euro sarà la moneta di riferimento in una vasta regione che si allarga verso la Russia, il Medio Oriente e l'Africa, lo yuan cinese sarà dominante in Asia, mentre il dollaro controllerà un'area di influenza Usa assai più ristretta di quella attuale.

Il multilateralismo sposato da Obama e Hillary sembra in sintonia con la realtà. Secondo Kupchan, alla luce delle attuali difficoltà dell'economia è improbabile che in futuro gli Usa possano continuare a giocare un ruolo di guardiano del mondo come hanno fatto dal dopoguerra a oggi: "Gli Stati Uniti non hanno più le risorse per svolgere un ruolo simile, anche perché la ricchezza globale ha cominciato ad accumularsi altrove. E poi non sembrano più averne voglia, con un elettorato sempre più a disagio con la globalizzazione".

Questo dibattito culturale sul futuro dell'Impero si riflette nella campagna in corso. Nelle ultime settimane è apparso chiaro che se sarà un democratico a salire alla Casa Bianca, gli Stati Uniti cambieranno rotta sulla globalizzazione. Gli accordi di libero scambio con la Corea del Sud e il Perù, dopo anni di discussioni, sembrano già finiti su un binario morto. I negoziati del Doha aperti dal Wto per abbattere altre barriere doganali stanno fallendo. Obama e Hillary hanno entrambi promesso di rinegoziare il Nafta, l'accordo con Canada e Messico, rendendolo più restrittivo. Nei giorni scorsi, quando si è diffusa la notizia che il Pentagono aveva assegnato una commessa da 40 miliardi per la costruzione di una flotta di aerei a una joint-venture di cui fa parte l'europea Eads, la società che controlla Airbus, Hillary ha scritto un comunicato di protesta durissimo per il danno inferto all'economia americana da quella decisione. Tra il 2002 e il 2007 il numero di americani a favore del libero commercio globale è sceso dal 78 al 59 per cento, e i candidati democratici sono sensibili a questo cambiamento di umore dell'opinione pubblica.

Siamo ancora lontani da un'America apertamente protezionista, ma ci sono segni che il Paese tende a chiudersi in se stesso, manifestando crescente disagio verso i processi di globalizzazione. Un paio di mesi fa, quando i fondi sovrani del Kuwait e di Abu Dhabi investirono oltre 10 miliardi di dollari per salvare Citigroup, il più importante gruppo bancario americano, dalla bancarotta provocata dai mutui subprime, i due candidati democratici reagirono con cautela: si limitarono a far capire che era necessario pretendere maggiore trasparenza dagli istituti finanziari controllati da governi non democratici. Allora si trattava di puri investimenti finanziari che non consentivano l'ingresso nelle stanze dei bottoni. Ma il potere economico dei fondi sovrani cresce ogni giorno, e il loro ruolo nell'economia americana si espande. Nei giorni scorsi i vertici del fondo di Abu Dhabi hanno affermato che le somme investite alla fine del 2007 non basteranno per salvare la banca, e hanno fatto balenare l'ipotesi di nuove iniezioni di denaro con il conseguente ingresso del fondo sovrano mediorientale nelle stanze di comando di Citigroup.

Un economista democratico come Thomas Weisskopf, docente alla University of Michigan, sostiene che i fondi sovrani sono destinati ad avere un ruolo crescente nell'economia americana: "Tutto ciò è conseguenza del declino del ruolo dell'America nel mondo, ma non è per forza un fatto negativo. In fondo, dopo aver visto svanire il suo impero, la Gran Bretagna è rimasta un paese forte, con un ottimo livello di vita. Se questo accadrà negli Usa, non sarà un male per gli americani".

Secondo gli analisti economici l'esempio dei fondi sovrani è importante per capire dove si sta spostando il potere a livello internazionale. Kenneth Rogoff, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, sostiene che con l'attuale valore del dollaro sarà sempre più costoso per gli americani mantenere la loro tradizionale supremazia globale: "Per anni gli Stati Uniti hanno costruito la loro egemonia grazie al denaro prestato a basso costo dalle banche centrali di Cina e Giappone. Quei soldi venivano usati per finanziare investimenti assai più produttivi, oltre che per pagare la macchina da guerra dell'Impero". Ma oggi i Paesi che accumulano ricchezza hanno deciso di investire in prima persona i loro soldi in modo produttivo: "Il vecchio modello di sviluppo è finito", dice Rogoff: "Se gli americani vorranno mantenere il loro status di superpotenza mondiale dovranno pagarlo aumentando le tasse". Ma gli americani odiano le tasse.

Martin Jacques, economista alla London School of Economics ed esperto di problemi dell'Asia, sostiene che siamo all'inizio del più grande cambiamento geopolitico dai tempi dell'era industriale: "La crisi del 1929 portò alla Seconda guerra mondiale e alla nascita del keynesismo. La crisi dell'Opec del 1972 distrusse le politiche socialdemocratiche e portò al trionfo del neoliberismo. Questa volta sarà l'ortodossia neoliberista a essere intaccata".

Paul Samuelson descrive l'America come una società di piccoli imperatori che vivono al di sopra dei propri mezzi e non vogliono fare sacrifici: "Le economie dell'Asia hanno acquistato i nostri macchinari, adottato i nostri principi economici e giuridici, raccolto le nostre bandiere ideali, e ora stanno guidando il mondo verso una nuova fase di prosperità. Alle locomotive Usa, Europa e Giappone si sono aggiunte Cina e India. Sono loro che tirano l'economia internazionale".

Con la recessione che incombe, lo scontro elettorale dei prossimi mesi sarà sui temi dell'economia, e in questo caso i democratici potrebbero vincere a novembre. McCain è debole in materia, e non sembra uscire dalle vecchie ricette reaganiane dello stato leggero e delle tasse da tagliare. Certo, i democratici potrebbero dargli una mano se si distruggessero a vicenda trasformando le primarie in una guerra fratricida, come hanno cominciato a fare.

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