Sono a rischio generazioni di lavoratori qualificati. Che fare? Contratti a tempo indeterminato e tutele crescenti contro il rischio di licenziamento. Specie per i giovani
Da ottobre 2009, i disoccupati in Italia sono nuovamente saliti sopra la soglia dei due milioni. Sarebbero due milioni e mezzo, con un tasso di disoccupazione a due cifre (attorno al 10 per cento), se ai disoccupati rilevati dall'Istat aggiungessimo i lavoratori in cassa integrazione a zero ore. L'ampio utilizzo della Cassa spiega gran parte della differenza fra l'Italia e gli altri paesi europei, dove mediamente la disoccupazione è aumentata di circa due punti percentuali (sul totale delle forze lavoro) dall'inizio della recessione.
Le perdite occupazionali più consistenti sono avvenute nel Mezzogiorno, dove domina la piccola impresa, da cui si accede, nel migliore dei casi, a sussidi ordinari di disoccupazione della durata massima di otto mesi. Al contrario di precedenti recessioni, la riduzione dell'occupazione questa volta non riguarda solo l'industria, ma tocca anche i servizi, soprattutto le costruzioni. E molti posti di lavoro nei servizi non sono coperti o sono coperti in modo del tutto insufficiente dai nostri ammortizzatori sociali, che riservano i trattamenti più generosi ai dipendenti del manifatturiero.
Ma il conto più salato lo stanno pagando, una volta di più, i giovani. La disoccupazione giovanile è aumentata dal 18 al 27 per cento. Nove posti di lavoro su dieci distrutti dalla crisi sono contratti a tempo determinato, collaborazioni coordinate e continuative e altri lavori formalmente in proprio ma dietro ai quali si celano posizioni di lavoro subordinato. Le cifre sugli atipici sono da bollettino di guerra: andati distrutti 265 mila lavori a termine, 100 mila collaboratori e 385 mila lavoratori autonomi, tra i quali vi sono diverse partite Iva 'parasubordinate' che forniscono le loro prestazioni a un solo committente. Tra i lavoratori precari che hanno perso il lavoro, uno su dieci ha accesso al sussidio di disoccupazione ordinario o alle indennità di mobilità. Questi giovani sono stati beffati due volte. Hanno avuto un lavoro decisamente meno protetto di quello degli altri e, una volta disoccupati, vengono completamente abbandonati dallo Stato.
Durante la crisi il governo ha deciso di estendere l'utilizzo della cassa integrazione anche a imprese che sin qui non avevano avuto accesso a questo strumento, attingendo a risorse delle regioni e della fiscalità generale. La cassa integrazione è uno strumento che funziona bene con crisi temporanee e quando le imprese che vi fanno ricorso sono chiamate a contribuire di più delle altre alle erogazioni. Serve a responsabilizzarle. Purtroppo la cassa integrazione in deroga ampiamente utilizzata durante la crisi non prevede aggravi per le imprese che vi fanno ricorso e i fondi sono forniti dalle tasse pagate da tutti anziché, come dovrebbe essere in uno schema assicurativo, dai contributi di lavoratori e imprese. Negli ultimi mesi sono proprio le ore di Cassa in deroga a essere fortemente aumentate, mentre calavano quelle degli strumenti ordinari, pagati dalle imprese. Come se fosse in corso un processo di sostituzione di strumenti a carico delle imprese con strumenti a carico della collettività.
Gli interrogativi più importanti sul nostro mercato del lavoro riguardano proprio l'ampio utilizzo della cassa integrazione durante la crisi. Con 816 milioni di ore utilizzate fino a novembre abbiamo ampiamente superato il record di ore del 1993 e ci avviamo verosimilmente a superare il massimo assoluto del 1984. Il rischio è, dunque, che la crisi ci lasci in eredità un nuovo sistema di trasferimenti alle imprese che si aggiunga ai tanti, assai poco trasparenti, già esistenti e spesso rivolti a imprese che non hanno un futuro. Nel 2009 l'utilizzo della cassa integrazione (in proporzione alle ore lavorate prima della crisi) è stato fortemente concentrato sui settori che erano già in difficoltà prima dell'inizio della recessione, come il tessile e abbigliamento, la lavorazione delle pelli e l'editoria. In altre parole, stiamo usando uno strumento straordinario e per definizione temporaneo per affrontare crisi strutturali. A lungo andare si può finire per lasciare molti lavoratori aggrappati a posti che non hanno un futuro, pur di mantenere formalmente un posto in azienda, magari integrando trattamenti inferiori ai 900 euro al mese con lavori in nero. Il tutto interamente a carico del contribuente, dunque tassando anche quelle iniziative imprenditoriali che avrebbero la possibilità, se meno gravate dalle imposte, di creare nuovi posti di lavoro. Vorrebbe dire congelare la nostra struttura economica su specializzazioni che hanno dimostrato di non reggere di fronte alle sfide della globalizzazione. Impedendo che vengano creati posti di lavoro che invece avrebbero un futuro.
Cosa accadrà nel 2010? Normalmente il mercato del lavoro reagisce con circa sei mesi di ritardo all'andamento dell'economia. Da noi la recessione è stata sin qui più forte che nel resto d'Europa e anche nei paesi Ocse nell'epicentro della crisi, come gli Stati Uniti e il Regno Unito. Nonostante alcuni segnali incoraggianti legati alle esportazioni verso la Germania, la produzione delle imprese industriali è di circa il 20 per cento inferiore ai livelli pre-crisi. Questo significa che ci sono molti lavoratori in esubero, non strettamente necessari per produrre a questi livelli. È quindi probabile che la disoccupazione possa continuare ad aumentare, almeno nella prima metà del 2010, anche se ora la recessione è formalmente finita. Per frenare l'emorragia di posti di lavoro bisognerebbe tornare a crescere in modo sostenuto in modo tale da spingere le imprese che hanno prospettive a tenere in azienda anche lavoratori in eccesso perché confidano in un forte incremento della domanda nei mesi a venire.
Se invece dovessimo uscire dalla crisi con un nuovo periodo di stagnazione, di bassa crescita, come il periodo 2001-2007, rischiamo di rimanere a lungo con tassi di disoccupazione a due cifre. E, fatto forse ancora più grave, aumenterebbe ulteriormente il dualismo del nostro mercato del lavoro. Le imprese, quando prevale l'incertezza, smettono infatti di assumere con contratti a tempo indeterminato. Nell'ultimo anno, stando ai dati delle comunicazioni obbligatorie raccolti al ministero del Lavoro, le assunzioni sono calate di circa il 30 per cento e queste assunzioni sono state quasi interamente con contratti temporanei. Nella crisi e nel dopo-crisi rischiamo allora di perdere intere generazioni di lavoratori qualificati che, assunti solo con contratti temporanei, non ricevono adeguata formazione in azienda e diventano così manodopera di riserva, di cui disfarsi al primo calo degli ordini. È esattamente quanto avvenuto nello scorso decennio in Giappone e in Svezia che hanno conosciuto prima di noi una lunga e profonda crisi scaturita dai mercati finanziari.
Mentre è bene sperare e concentrare tutte le energie e investire capitale politico in riforme che facciano tornare a crescere il nostro Paese, è perciò prudente prepararsi al peggio. Per questo dobbiamo ora, subito, riformare il percorso di ingresso nel nostro mercato del lavoro, introducendo un contratto a tempo indeterminato e tutele crescenti contro il rischio di licenziamento.
Eviteremmo che si entri sempre con una data di scadenza che diventa una profezia che si autorealizza, dato che né l'impresa né il lavoratore investono in formazione in questi casi. Risparmieremmo a milioni di giovani lo psicodramma della conversione del contratto a tempo determinato in contratto permanente perché tutti inizierebbero con un contratto a tempo indeterminato. Eviteremmo di prefigurare per loro un futuro previdenziale molto grigio. È una riforma che servirà comunque. Come quella degli ammortizzatori sociali. Permetteteci di sognare che entrambe queste riforme vengano varate entro il 2010.