Economia
novembre, 2011

Banche, è allarme rosso

Da Intesa Sanpaolo a Monte Paschi a Unicredit. Le giornate nere in Borsa si susseguono. A pesare sono le prospettive sempre più negative sui Btp e non solo italiani.Un problema in più per i nostri istituti di credito, che nel loro patrimonio hanno ingenti investimenti in titoli di Stato

Tempi duri per le banche. Da Wall Street all'Italia i manifestanti le prendono continuamente di mira. I consumatori le criticano. E diversi partiti politici, alla ricerca di un capro espiatorio per la crisi che sta tartassando l'Europa, scaricano su di loro la responsabilità del tracollo dei titoli di Stato. A dispetto di tutte queste tensioni, tuttavia, per gli istituti di credito la maggiore fonte di preoccupazione restano i mercati finanziari, a cominciare dalle vendite sui titoli di Stato che, dopo quelli italiani, stanno ora colpendo quelli francesi. Un problema in più per le banche, che hanno investito quote considerevoli dei loro patrimoni in titoli dell'area euro. E così, oggi, in Borsa le vendite stanno penalizzando un po' tutte le azioni bancarie, a cominciare da quelle degli istituti più piccoli. Un nuovo segnale di debolezza che in prospettiva rischia di mettere ulteriormente sotto pressione quegli azionisti che, a partire dalle Fondazioni bancarie, hanno finora garantito l'italianità del controllo delle banche maggiori.

Lo choc ha travolto le banche italiane lunedì 14 novembre. Unicredit, il secondo istituto nazionale per grandezza e il più ramificato oltre confine, ha annunciato di avere bisogno di un aumento di capitale da 7,5 miliardi di euro. I quattrini servono per mettersi alle spalle una valanga di perdite straordinarie e, soprattutto, per rispondere alle nuove regole imposte dall'Eba, l'authority delle banche europee. Regole che spaventano non solo i manager degli istituti tricolori ma soprattutto i loro soci italiani. Se c'è ancora qualcosa di nazionale nell'azionariato di Unicredit - dove abbondano fondi arabi, enti governativi cinesi e casse pensionistiche di mezzo mondo - il merito va alle fondazioni bancarie. Che hanno sostenuto la banca di piazza Cordusio in questi anni difficili e che ora, per effetto del nuovo aumento, sono chiamate dall'amministratore delegato Federico Ghizzoni a mettere di nuovo mano al portfoglio. Sborsando, tutte insieme, la bella cifra di 1,2 miliardi, un sesto del totale. Soldi che alcune di loro, però, non hanno nella loro attuale disponibilità.

Il problema è tutto qui. Garantire il controllo italiano di Unicredit, alle fondazioni è costato lacrime e sangue. Il prezzo del loro sforzo salta bene all'occhio osservando la tabella qui sopra: il 15 per cento di Unicredit in mano alle fondazioni, in Borsa vale oggi 4,8 miliardi in meno rispetto a quanto c'è scritto nei loro bilanci. Se la situazione non migliora in fretta e il tempo le costringerà a far emergere l'enorme minusvalenza, verrebbero travolte da perdite contabili straordinarie. E rischierebbero di non avere più il becco di un quattrino per mandare avanti la loro attività, che va dal restauro di musei e ospedali al sostegno finanziario delle università nelle regioni d'origine.

Prospettiva inquietante, che preoccupa ancor più quelle fondazioni che temono di doversi indebitare per poter partecipare alla ricapitalizzazione della banca, per conservare la propria quota e, soprattutto, non perdere l'ambito peso decisionale sull'istituto. Alcuni presidenti - da Paolo Biasi della Cariverona ad Andrea Comba della torinese Crt, rappresentata da Fabrizio Palenzona alla vice-presidenza di Unicredit - non vogliono diluire la cospicua influenza che si sono ritagliati nel tempo.

A tre anni dal fallimento della Lehman Brothers, la crisi sta mettendo a nudo la debolezza del sistema di controllo delle banche. C'è chi teme che il crollo dei prezzi dei titoli di Stato italiani, con la loro tragica ricaduta sui conti delle banche, possa fornire infatti un'occasione d'oro a chi voglia far razzie. "Si sta preparando il grande saccheggio dei Lanzichenecchi", ha detto l'economista Giulio Sapelli, senza usare mezze parole, criticando aspramente le nuove regole imposte dall'Eba, guidata dall'italiano Andrea Enria, che ha ordinato agli istituti tricolori di mettere da parte riserve di capitale definite "temporanee" per ben 15 miliardi. Un cuscinetto di liquidità che dovrebbe servire per attutire le perdite sui titoli di Stato presenti nei portafogli delle banche.

Quelle toccate sono quattro. La prima a rispondere è stata Unicredit: per l'Eba aveva bisogno di 7,3 miliardi e Ghizzoni ha deciso di chiederli tutti, nonostante la fatica micidiale che le fondazioni azioniste faranno per reperire la quota di loro competenza. Al Monte dei Paschi di Siena servirebbero 3,1 miliardi, ma la Fondazione Mps non ha i soldi per la sua parte (la metà): se dovesse fare un nuovo aumento dopo l'ultimo, recentissimo, perderebbe il controllo assoluto dell'istituto. E, così, il consiglio di amministrazione della banca ha deciso di cercare altre strade. Completano il quadro due istituti cooperativi, il Banco Popolare (con 2,8 miliardi, dice l'Eba) e Ubi Banca (1,4), appena reduci da due aumenti digeriti con grande difficoltà dai soci. Così trovano spazio i cattivi pensieri di Sapelli e altri: "C'è una precisa coscienza iper regolatoria che mira a svilire il valore delle nostre banche che così possono essere più facilmente preda di francesi e tedeschi", ha detto l'economista, in passato presidente della Fondazione senese.

Tra i banchieri, in verità, qualcuno spera ancora che la quantità di patrimonio detta "core tier one" (la quota primaria del capitale di una banca, che comprende le azioni, le obbligazioni perpetue e gli utili non distributi) richiesta dall'Eba per far fronte ai rischi possa essere ridotta o che possano essere cambiate le modalità di valutazione dei titoli di Stato dei cosiddetti "Pep", i Paesi europei periferici, tra cui è stata annoverata l'Italia con i suoi Btp. Non ci conta però Giovanni Sabatini, direttore dell'Abi, l'Associazione delle banche italiane. Che spiega: "Ciò che l'Eba proprio non capisce è che le banche commerciali devono sopportare soprattutto il peso dell'aumentato rischio del debito sovrano.

Ma nei portafogli degli istituti italiani, oltre ai titoli di Stato, ci sono anche gli impieghi a imprese e famiglie: il rischio-paese è connaturato al nostro business. Se davvero avvenisse un default, ipotesi che peraltro riteniamo impossibile, i problemi travolgerebbero non solo il portafoglio dei titoli di Stato ma tutte le attività, con effetti devastanti sull'economia nazionale". A quel punto, è il pensiero del direttore dell'Abi, esploderebbero le sofferenze: "E ci troveremmo in uno scenario in cui quel po' di capitale in più che l'Eba ci sta chiedendo non sarebbe affatto sufficiente a gestire il trauma".

Alle banche, il capitale di vigilanza serve a gestire il rischio. E, l'Abi lo va ripetendo senza pausa, la rischiosità degli attivi degli istituti italiani è assai più contenuta rispetto ai concorrenti europei che appaiono virtuosi agli occhi dell'Eba. Un esempio? I titoli tossici presenti nei portafogli delle banche straniere, e meno in quelli delle italiane. E ancora, il livello di leva: i tedeschi con un euro di capitale ne prestano 35, gli italiani 14.

"Personalmente alla teoria complottistica, che vorrebbe l'Eba al centro di una manovra per far cadere alcune banche italiane in mani franco-tedesche, non credo affatto. Anche perché non vedo chi possa essere interessato, adesso, a investire quattrini in un istituto italiano. Chiunque lo facesse, vedrebbe immediatamente il proprio titolo precipitare in Borsa", sostiene Gianluca Garbi, presidente e azionista di Banca Sistema, a lungo alla guida di Mts, il mercato telematico dei titoli di Stato, un fresco passato ai vertici della teutonica Commerzbank. Di una cosa, però, Garbi è quasi certo: all'uscita dalla crisi finanziaria che sta stressando il sistema del credito, il panorama bancario italiano sarà cambiato. "Immagino che ci sarà una serie di matrimoni e acquisizioni, a livello nazionale piuttosto che internazionale. Operazioni che avrebbero incontrato fortissime resistenze tra gli storici azionisti, in qualche caso le fondazioni bancarie, potranno essere digerite grazie alle pressanti difficoltà provocate dalla crisi di fiducia nel debito italiano. Da socio, preferirei vedermi diluito in una banca sana che non essere in maggioranza in un istituto che barcolla", spiega.

Fino a ieri, dunque, i signori delle fondazioni sembravano avere pochi problemi: trovare un posto dove mettere i soldi e proteggere dagli appetiti della politica le loro poltrone e se stessi dalle frequenti accuse di auto-referenzialità. Ora, però, le cose sono cambiate. E i grattacapi non mancano. Il baratro fra i prezzi di Borsa dei titoli bancari e il loro valore di bilancio costituisce un problema che rischia di avere effetti duraturi. Le fondazioni ripetono tutte che, trattandosi di investimenti di lunga durata, non devono svalutare. E sperano che, nel tempo, le quotazioni risaliranno.

Tuttavia i vincoli aumentano, anche perché il flusso di dividendi si è ridotto fortemente e il peso politico dei presidenti ne risulta intaccato, visto che i fondi distributi nelle varie opere di sostegno alle comunità cittadine sono diminuiti. Gabriello Mancini, ad esempio, presidente della Fondazione Mps, ai prezzi correnti di Borsa ha una perdita teorica superiore ai 3,4 miliardi. Mentre per Cariverona, il maggiore azionista italiano di Unicredit, la minusvalenza potenziale è di 2,6 miliardi. A ruota, sempre per quel che riguarda l'istituto guidato da Ghizzoni, seguono la trevigiana Cassamarca (792 milioni) e la torinese Crt (590 milioni). Di tutto rilievo anche il disavanzo di due fondazioni che hanno quote ormai molto ridotte nella banca, come la Banco di Sicilia (321 milioni) e la Roma (367 milioni), entrambe ex azioniste di Capitalia.

Ai tempi delle vacche grasse, alcuni signori delle fondazioni avevano costruito un pacchetto di partecipazioni che permetteva loro di giocare un ruolo a tutto campo nel mondo del credito. Nel bilancio 2010 della Cariverona di Biasi figurano, ad esempio, lo 0,90 per cento del Monte dei Paschi (a un prezzo pari a sei volte le quotazioni attuali) e soprattutto il 3,1 per cento di Mediobanca, acquistata per 242 milioni (anche qui la perdita potenziale è consistente).

Anche le fondazioni Mps e Crt avevano investito in Mediobanca, come pure su altre banche: i senesi avevano puntato su Intesa Sanpaolo, mentre le preferenze dei torinesi erano cadute sugli istituti stranieri, come lo spagnolo Banco Sabadell e la francese Société Générale. La scelta non è stata felice né nel primo né nel secondo caso. A volte però, anche a esser prudenti si finisce nei guai. Cariverona ha puntato oltre 900 milioni nell'acquisto di titoli di Stato italiani a lunga scadenza. Sembravano sicuri, ora potrebbero non rivelarsi tali. Grazie all'Eba.

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