Banche italiane nel mirino. I mercati finanziari picchiano duro sui loro titoli in Borsa perché le vedono indebolite dalla crisi del debito pubblico tricolore. Ma ci si mette anche il fisco, che ha in ballo contenziosi miliardari con parecchi istituti di credito. Soltanto il braccio di ferro in corso tra l'Erario e tre big del credito come Montepaschi Siena, Intesa Sanpaolo e Unicredit vale 2 miliardi di euro.
In questa estenuante battaglia - le vertenze durano anni - le banche sono in buona compagnia, in Piazza degli Affari. Esaminando le principali 40 società quotate che compongono l'indice Ftse Mib, sul tappeto ci sono almeno 5 miliardi di euro. Scorrendo bilanci e relazioni semestrali delle società per azioni con la maggiore capitalizzazione di mercato, ci si imbatte in contenziosi che vanno avanti da anni, con il fisco nazionale ma pure con le amministrazioni dei paesi esteri in cui molte società operano: dall'Eni a Telecom Italia, dalla Mediolanum di Ennio Doris e Silvio Berlusconi alla Fondiaria Sai di Salvatore Ligresti.
Un terzo delle blue chip è coinvolto. Spesso le grandi società, quotate e non, si lamentano per essere prese di mira da Agenzia delle entrate e Guardia di finanza. D'altronde, è lì che c'è più polpa, per i James Bond del fisco. Complice una giungla normativa in perenne ebollizione, le possibilità di eludere le regole abbondano, a volerle furbescamente sfruttare. E i guardiani inseguono, come nello sport di vertice, dove il doping è sempre in vantaggio rispetto all'antidoping. Peraltro, i casi che coinvolgono grandi imprese hanno un maggiore risalto mediatico, e all'Erario conviene anche portarsi a casa solo una piccola percentuale delle somme inizialmente richieste. Ecco perché, probabilmente, far sganciare alle aziende quotate nel mirino un quinto o un decimo dei 5 miliardi sul tappeto potrebbe già essere considerato un successo del fisco.
Sono le mosse delle banche ad essere le più contestate. Al fisco non piacciono soprattutto le complicate operazioni finanziarie realizzate, a cavallo tra Italia ed estero, nel periodo 2004-2009 per ottenere vantaggi fiscali, per esempio la minor tassazione oltre frontiera delle plusvalenze sui dividendi. Lo scontro più tosto ruota intorno al cosiddetto "abuso del diritto". Se una società effettua un'operazione lecita, come fondare una o più imprese, senza una reale funzione pratica bensì con lo scopo di pagare meno tasse, starebbe compiendo un abuso del diritto per aggirare o ridurre i versamenti al fisco.
Prodotti appositamente confezionati da giganti internazionali come Deutsche Bank e Barclays e utilizzati da tante banche italiane sono stati così considerati illegittimi.
Nel maggio scorso, Unicredit ha sganciato 99,1 milioni di euro per una vicenda di pronti contro termine imbastiti con una controllata di Deutsche Bank in Nuova Zelanda. E a Intesa Sanpaolo hanno contestato pochi mesi fa 119 milioni di benefici fiscali che s'aggiungono ai 337 milioni contestati nel 2010, sui quali la banca ha presentato ricorso. Luca Rossi, tributarista dello Studio Facchini Rossi Scarioni, puntualizza: "Agenzia delle Entrate e Gdf si concentrano sulle operazioni internazionali infragruppo, con un occhio alla residenza fiscale della società e ai rapporti con le controllate all'opera nei paradisi fiscali". Rossi sottolinea anche come vengano tenute d'occhio le acquisizioni effettuate indebitandosi: "Per il fisco, a volte, e secondo me erroneamente, gli interessi passivi sui debiti contratti non vanno considerati deducibili". Questo fa capire quanto possa essere fluida l'interpretazione delle regole, e come il contrasto all'abuso del diritto consenta alla Gdf di alzare il livello della propria strategia antidoping, perché serve a perseguire anche comportamenti non classificati nella legislazione anti-elusione.
Il quadro che emerge è quello di una litigiosità fiscale senza sosta, che dovrebbe far contenti i cittadini "normali" in quanto indice di un'occhiuta attenzione alle trasgressioni delle grosse aziende. Purtroppo, sovente, a fregarsi le mani sono i commercialisti e i tributaristi al servizio delle società. La tanto sbandierata lotta all'evasione e all'elusione assomiglia spesso a una partita di calcio che alla fine del primo tempo vede la squadra "Fisco" in vantaggio di due gol (addebiti di evasione o elusione), messi a segno dagli "attaccanti" Agenzia delle Entrate e Guardia di finanza. Poi però il match prende un'altra piega, e i contrattacchi delle società prese di mira finiscono per prevalere, con la partita che s'allunga a dismisura tra ricorsi, appelli, annullamenti delle sanzioni affibbiate. Non a caso Pirelli, che ha sul tappeto una vertenza da 112 milioni di euro, scrive sulla semestrale: "Gli esiti delle pronunce emesse a tutt'oggi dagli organi giudicanti sono stati favorevoli. Ciò induce a ritenere che essi possano essere confermati in via definitiva a comprova della fondatezza delle argomentazioni a proprio sostegno, senza dover quindi sostenere oneri". Qualche volta, invece, l'happy end è più remoto: la lombarda Ubi Banca nella semestrale mette nero su bianco che i 178 milioni al centro del contenzioso fiscale "rappresenta il 70 per cento delle passività potenziali".
Le schermaglia fiscali delle imprese italiane coinvolgono anche l'erario di altri Stati, come nel caso di Telecom Italia, che in patria fa i conti con la coda fiscale dell'inchiesta giudiziaria su Telecom Sparkle (con 727 milioni contestati per crediti Iva illecitamente maturati e per deduzioni fiscali su attività irregolari, di cui 418 milioni già pagati) e in Brasile ha ricevuto dagli ispettori del fisco locale un avviso di accertamento per 550 milioni di euro sulla controllata Tim Celular. L'Irlanda, con il suo fisco low-cost, è al centro di parecchie "querelle". Pochi mesi fa a Mediolanum sono stati contestati maggiori imponibili per complessivi 121,4 milioni, legati alle commissioni sui prodotti finanziari della controllata irlandese Mifl. E per l'Agenzia delle Entrate, altri 150 milioni sarebbero sottratti grazie alla domiciliazione fiscale a Dublino.
Una cifra simile è contestata all'Eni guidata da Paolo Scaroni, su operazioni tra le controllate Padana Assicurazioni e Eni Insurance Ltd, basata in Irlanda. Dove gli utili sono tassati poco più di un terzo rispetto all'Italia.
Ha mestamente ricordato poche settimane fa la Corte dei Conti che, quando l'arbitro fischia la fine dell'incontro, lo Stato incassa l'11 per cento delle imposte evase accertate. Percentuale che precipita all'uno per cento se l'evasore non patteggia con il fisco. Tra 2006 e 2009 è stato fatto un milione e mezzo di controlli, per il 95 per cento chiusi con l'addebito di evasione, per una somma che arriva, sanzioni comprese, a 75 miliardi. Ma si sono recuperati davvero solo 8,3 miliardi, saliti a 10,6 miliardi del 2010. La miscela di sconti e accordi porta lo Stato a chiedere la metà di quanto accertato, e via via a mollare la presa. Il patteggiamento, del resto, è la ricetta suggerita da molti esperti. Dice uno di loro: "Transare, transare, transare: perché arrivare in Cassazione, adesso, non è una mossa prudente, soprattutto per le società che hanno messo in piedi operazioni esclusivamente a fini fiscali". L'Italia ha il tax-rate medio delle imprese - l'insieme delle tasse da sborsare - più alto d'Europa.
Gli imprenditori se ne lamentano, affidando a un esercito di commercialisti la ricerca di tutte le scorciatoie legalmente imboccabili per risparmiare sulla bolletta erariale. Il problema è che, secondo Gdf e Agenzia delle Entrate, la ricerca sconfina spesso nell'elusione. "Lecito risparmio d'imposta o elusione? Il filo che li divide è molto sottile anche perché c'è un labirinto di norme non puoi mai essere certo di avere fatto tutto per bene", dice l'avvocato Maurangelo Rana dello studio Martinez-Novebaci. Tranchant Francesco Tundo, docente di diritto tributario a Bologna: "La lotta all'evasione attraverso l'abuso del diritto ha l'obiettivo di fare cassa".
Peccato che quando deve davvero incassare, lo Stato si comporta come un bradipo sonnolento e svogliato.