Sono più di 50 mila, uno ogni sette impiegati. Negli ultimi anni i loro premi sono saliti del 30 per cento. E sono considerati i responsabili della scarsa efficienza della pubblica amministrazione. Ora Bondi impugna le forbici
Una sigaretta in cortile a mezza mattina, suvvia, che male c'è? Peccato che i cinque dipendenti del ministero dell'Economia non si siano accorti che uno sguardo severo li controllava dal piano nobile: non si sarebbero attardati per mezz'ora oltre l'ultimo tiro. Ed è stato così che su di loro si è abbattuto come uno sparviero Enrico Bondi, cacciatore implacabile di sprechi e spese inutili. Bondi è sceso di persona, ha preso nota dei nomi e ha trasmesso al personale con richiesta di provvedimento disciplinare. È anche per questo che il commissario per la spending review è già leggenda. Perché non disdegna di affrontare con lo stesso piglio situazioni apparentemente di scarso impatto e contratti miliardari, di mettere nel mirino le 60 mila auto blu o il miliardo e 200 mila euro degli affitti pagati dalla pubblica amministrazione e la luce accesa giorno e notte al ministero. Bondi si presenta al lavoro alle sette di mattina per verificare quante risme di carta sono state consumate il giorno prima, e chiede al capodipartimento che le comunicazioni interne vengano spedite riciclando buste usate. Ma è quando ha a che fare con i big che Bondi dà il meglio di sé: più di uno è stato bacchettato in pieno Consiglio dei ministri per scarsa vigilanza sulle spese del proprio dicastero. E nell'anticamera del suo ufficio si sono incontrati pezzi grossi come Attilio Befera o Antonio Mastrapasqua con la stessa aria da scolaretti mandati dietro la lavagna. Per un uomo simile, come non tifare con tanto di ola?
Bondi è una delle tre punte con cui il governo Monti ha deciso di dare l'attacco agli eccessi della spesa pubblica. Le altre due sono la riorganizzazione degli uffici da un lato, dall'altro il taglio dei dipendenti, cominciando dai dirigenti. In questo quadro, è difficile che gli alti burocrati di ministeri ed enti ripetano con la stessa convinzione il mantra: tagliare, snellire, risparmiare; sarebbe come chiedere al tacchino di spennarsi da solo. Il direttore dell'Agenzia delle Entrate Befera, per esempio, è molto irritato per quello che considera un doppio golpe: la soppressione dell'Agenzia del Territorio decisa due settimane fa da Palazzo Chigi, e il suo accorpamento con le Entrate, nonché il passaggio dei Monopoli alle Dogane, dopo che solo un anno fa ai Monopoli era stato devoluto il personale delle Direzioni territoriali delle finanze, con il perverso risultato che "da 25 sedi regionali si è passati a 85 sedi provinciali", come denuncia Alessio Mercanti, responsabile dell'associazione Pa e meritocrazia (
paemeritocrazia.jimdo.com). Adesso, il rischio potrebbe essere che ai dipendenti dei Monopoli verranno estese le indennità delle Dogane. Spesa solo parzialmente coperta con la cancellazione di due posti da direttore generale: quello dei Monopoli Raffaele Ferrara s'era già dimesso, mentre dal Territorio Gabriella Alemanno vuole vendere cara la pelle, tanto che la suddetta fusione si è subito arenata il Parlamento.
Ma se dalle alte sfere della burocrazia remano contro, il governo ha pronta la mossa del cavallo: tagliare le province, e con loro tutto quel tessuto di prefetture, questure, uffici scolastici, sovraintendenze che ad esse riferiscono, e che si portano dietro affitti, manutenzioni, pulizie, bollette. Quante saranno? Combinando tre criteri (abitanti, superficie e numero di comuni), ma salvando comunque i capoluoghi di regione, salterebbero 40 sedi provinciali, da Ferrara a Piacenza, da Pescara a Vibo Valentia, da Latina a La Spezia da Gorizia a Livorno. Di certo, il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi vuole fermamente portare a casa almeno 20 tagli, lasciando quali competenze residue solo le strade, il trasporto locale, le discariche.
Certo, tutti gli accorpamenti produrranno inevitabilmente degli esuberi. E nel settore pubblico un esubero fa scattare lo stato di mobilità, che dura due anni con l'80 per cento dello stipendio (al netto delle indennità, che pesano non poco, vorrebbe dire accontentarsi del 60 per cento della busta paga). Alla fine, o ci si ricolloca in un'altra amministrazione, o si è fuori. Prospettiva che arroventa il clima con il sindacato, e che porrebbe non pochi problemi di gestione sul piano pratico, visto l'allungamento dell'età pensionabile e il rischio di produrre, anche qui, un esercito di "esodati".
Il governo non sembra preoccupato dalla prospettiva. Anzi, garantisce che non ci saranno soluzioni cruente. Ma allora, che tagli saranno? Negli ultimi quattro anni sono già intervenute tre manovre sulla riduzione degli organici di ministeri ed enti, e i posti sarebbero dovuti scendere del 30 per cento. In realtà, dal 2006 al 2010 il calo c'è stato, secondo i dati della Ragioneria, ma solo del 5 per cento, in forza del blocco del turn-over. Ne ha fatto le spese chi aveva vinto un concorso (per esempio sono ancora in attesa 96 vincitori di quello per entrare all'Ice, ente poi soppresso, e i 254 dell'Inail, mentre in totale sono stimati in questa condizione in 70 mila), ne hanno beneficiato viceversa le assunzioni a termine e a contratto. In controtendenza, i dipendenti della Presidenza del Consiglio, che sono cresciuti del 5,2 per cento dal 2006 al 2010; poi il servizio sanitario nazionale, le Forze Armate, cresciute del 7 per cento (dato record) e i vigili del fuoco. Ora Monti deve dimostrare di saper innestare la marcia indietro.
Per le Forze armate il governo ha già dichiarato l'obiettivo di farle dimagrire di 43 mila unità. Quanto ai ministeriali, il presidente del Consiglio ha preso di petto innanzitutto il ministero dell'Economia, il più grande, quello che spende di più in assoluto. Non solo con gli accorpamenti di cui s'è detto, ma anche disponendo il taglio del 20 per cento della dirigenza e del 10 per cento dell'organico. Attenzione, però, c'è un piccolo particolare: si parla di tagli alla pianta organica, non delle teste. E poiché l'organico del Mef è superiore ai posti effettivamente occupati, non si farà altro che tagliare sedie vuote. Al 1 giugno di quest'anno il personale non dirigenziale in servizio al ministero Economia e Finanza era infatti di 10 mila 900 persone. Dopo il taglio del 10 per cento, l'organico scenderebbe a 11 mila 380: quindi, a manovra compiuta, ci sarebbe ancora un avanzo di 480 posti vuoti. Questo primo passo, quindi, non incide ancora sulla carne viva e non produce risparmi, almeno al Mef.
Chi trema davvero sono invece i dirigenti. Negli ultimi anni i premi "performance" percepiti dai dirigenti pubblici sono lievitati del 30 per cento, denunciava l'anno scorso la Corte dei Conti (anche se ora hanno dovuto accettare decurtazioni alla retribuzione del 5 e 10 per cento). E sono cresciuti molto anche di numero: tanto per fare un esempio, dal 2001 al 2006 solo i direttori generali sono saliti da 351 a oltre 500, per pura esplosione clientelare a servizio della politica, come documenta l'Agdp, l'associazione dei dirigenti. Oggi, la categoria è un esercito di 50 mila persone (esclusi i dirigenti medici). Troppi. Secondo Luigi Oliveri su LaVoce.info, si prevede di portarli da un rapporto di uno ogni 30 dipendenti a uno ogni 40 dipendenti. Considerando che alla Presidenza del Consiglio c'è un dirigente ogni 7 impiegati, si può immaginare la fibrillazione. Di certo, su di loro si deve abbattere la mannaia del 20 per cento: quanti ne farà saltare? Considerando un perimetro di ministeri, presidenza ed enti pubblici non economici, su 7 mila persone che oggi occupano posti dirigenziali, ben 1.400 saranno fatti fuori.
Il problema che resta sul tappeto sono le modalità. Con le nuove regole che spostano l'età della pensione a 67 anni, non può bastare il requisito né dei 40 anni di contributi né quello dei 60 anni di età per immaginare un mega-scivolo: molti diplomatici, per esempio, hanno riscattato anni di sedi disagiate, che valgono il doppio, e hanno una buona anzianità lavorativa ma sono ancora nei cinquant'anni. Quanto ai sessantenni, che sono 230 mila persone sugli oltre 3 milioni di dipendenti pubblici, dovrebbero restare troppo a lungo in attesa della pensione senza tutele, da veri "esodati". Insomma, l'ipotesi di strumenti straordinari per accompagnarli all'uscita è stata bocciata dalla Ragioneria. L'unica strada praticabile resta quella delle norme transitorie, che prevedano il taglio del posto quando chi lo occupa va naturalmente in pensione.
Questo non vuol dire che non ci sia qualcosa da fare ora. Per esempio, mettere mano agli enti inutili. Nel mirino, ci sono le Scuole di formazione dell'amministrazione pubblica. Sono cinque e costano una cinquantina di milioni. Si comincia con l'accorpamento di quella Superiore di formazione della PA e quella dell'Economia e della Finanze, cara all'ex ministro Giulio Tremonti. I veri esuberi ci saranno lì.