L’azienda che propone un servizio in streaming di musica su computer, telefono e tablet, ha fatto breccia nel cuore dei consumatori. E ora viene quotato. Ecco come è nata la società svedese

L’idea di business sembrava quasi una battuta: «Regalate le vostre canzoni alle persone e vedrete che prima o poi le compreranno». Così quando nel 2008 lo svedese Daniel Ek l’ha proposta alle maggiori etichette discografiche del pianeta, per poco non gli ridevano in faccia. A distanza di sei anni la sua previsione si è invece rivelata azzeccata e il gotha della musica ha fatto marcia indietro, stringendo accordi con Spotify, la start up fondata nel 2006 e lanciata due anni dopo da Ek insieme al connazionale Martin Lorentzon.

L’azienda che propone un servizio in streaming, cioè trasmissione via Internet di musica su computer, telefono e tablet, ha fatto breccia nel cuore dei consumatori: 10 milioni di abbonati oggi pagano 9,99 euro (dollari o sterline) al mese per ascoltare senza limiti oltre 30 milioni di brani, e altri 30 milioni di utenti accedono gratis, con alcune limitazioni, incluse le interruzioni pubblicitarie.

Il successo è tale da rendere imminente lo sbarco a Wall Street della società, presente ormai in 56 Paesi, Italia compresa: secondo diverse indiscrezioni, proprio in vista di questo appuntamento Spotify avrebbe ottenuto alla fine del 2013 fondi per 250 milioni di dollari dalla Technology Crossover Ventures, società di investimenti nel settore tecnologico, che si è aggiunta ai suoi finanziatori già noti, quali Goldman Sachs, Fidelity Ventures, Coca-Cola, Accel Partners, Morgan Stanley, Crédit Suisse e Deutsche Bank.

Una lista talmente lunga che si spiega, forse, con le previsioni che la società possa raggiungere, in occasione del collocamento dei titoli per la quotazione, valutazioni ragguardevoli: i più ottimisti parlano di 7-8 miliardi di dollari, i più prudenti di 4-5. Un risultato non da poco, visto che, quando si è presentata sul mercato, Spotify si era data un obiettivo avventuroso: rivoluzionare l’industria della musica appena passata attraverso il ciclone iTunes, il servizio di download digitale di singole canzoni lanciato nel 2001 da Steve Jobs per riempire di contenuti dei nuovi iPod della Apple.

Più che il frutto di un’intuizione, Spotify è il risultato di una fine strategia attuata da Ek e Lorentzon: anche loro come Jobs erano rimasti colpiti dal fenomeno Napster, il programma per scambiare musica illegalmente online che nel giro di due anni, prima della chiusura imposta nel 2001, aveva affossato i guadagni dei discografici. Ma i due svedesi pensavano di poter alimentare le vendite proprio partendo dall’ascolto gratuito. Solo il nome, Spotify, come rivelato poi, è nato per caso da un errore di comunicazione tra i due, che si urlavano suggerimenti da una stanza all’altra del loro ufficio. Tutto il resto è il frutto dell’applicazione delle ricerche di Shuman Ghosemajumder, tecnologo ed economista che già nel 2002 al Mit di Boston suggeriva l’idea di un nuovo modello di business per la musica, basato su condivisione e abbonamento: secondo lui le canzoni dovevano trasformarsi da bene di consumo in servizio, con una sottoscrizione in grado di massimizzare i profitti a un prezzo suggerito di 9 dollari al mese.

Nel duo di fondatori il “vecchio” Lorentzon, 45 anni, presidente del consiglio di amministrazione, è quello che ha il fiuto degli affari, grazie alla sua esperienza di stratega finanziario nella svedese Cell Ventures. È lui il primo investitore in Spotify, grazie ai milioni incassati con le azioni di Tradedoubler, azienda di marketing online, fondata nel 1999, portata in Borsa nel 2005 e lasciata nel 2006. Daniel Ek, 31 anni, amministratore delegato, è invece il creativo e il comunicatore.

A quattro anni ricevette la sua prima chitarra e a cinque il suo primo pc; imparò a suonare la prima e ruppe il secondo, perciò si ingegnò per ripararlo e si appassionò alla programmazione. A 14 anni iniziò a creare per 5 mila dollari pagine Internet che i concorrenti vendevano a 50 mila: e quando la domanda cominciò a crescere, addestrò i compagni di scuola più talentuosi in informatica per farli lavorare con lui. Abbandonato il corso di informatica al quale si era iscritto dopo le medie, fece esperienza in varie società tecnologiche, tra cui uTorrent, che offrivano il software libero per la condivisione di file (un programma su cui non a caso è poi migrata anche la pirateria). Nel 2006 Ek incontrò Lorentzon e così nacque Spotify.

L’intuizione che dà a questo servizio una marcia in più è il suo lato social, cioè il fatto che ogni utente può costruire le sue scalette di canzoni preferite e condividerle con gli amici (anche grazie a un accordo con Facebook). Così, dopo aver provato il servizio gratuito, molti utenti si abbonano. Ed è proprio la base di clienti paganti, quadruplicati negli ultimi quattro anni, la forza della multinazionale svedese: secondo PrivCo il fatturato di Spotify è basato per l’85 per cento sulle sottoscrizioni e per il 15 per cento sulla pubblicità. In più c’è da considerare la crescita del consumo di musica in streaming, passato dal 2008 al 2013 dal 4 al 21 per cento del totale, e il calo, seppure dell’1 per cento, del classico download.

Ecco perché Apple dapprima ha lanciato iTunes Radio, simile all’emittente online Pandora, e poi ha acquisito per 3 miliardi di dollari Beats Electronics, che ha una linea di cuffie di successo e un servizio di streaming musicale.

Nonostante la tendenza positiva, lo sbarco in Borsa di Spotify presenta alcune incognite: non tanto l’opposizione di qualche artista o la paura di una bolla speculativa sui titoli hi-tech, quanto il fatto che l’azienda restituisce il 70 per cento degli introiti ai discografici (a oggi ha già versato un miliardo di dollari). Infatti, sebbene il fatturato dal 2011 al 2012 sia salito da 190 ai 435 milioni di euro, sono aumentate anche le perdite nette, da 45,4 a 58,7 milioni, dovute appunto alle royalties e ai costi operativi. Tuttavia Ek non pare turbato: «Quando raggiungeremo 40 milioni di abbonati tutto si sistemerà», ha detto lasciando intendere che più Spotify crescerà, maggiore sarà il suo potenziale di negoziazione delle royalties. In onore alla massima di George Bernard Shaw appesa nel suo ufficio, proprio sopra una chitarra Fender Stratocaster: «L’uomo ragionevole adatta se stesso al mondo, quello irragionevole insiste nel cercare di adattare il mondo a se stesso. Così il progresso dipende dagli uomini irragionevoli».

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