L'austerity di Angela Merkel non piace più

porsche, auto, fabbrica, germania
porsche, auto, fabbrica, germania

Dopo anni a tutto export, anche l’industria tedesca rallenta. E crescono le pressioni perché il governo aumenti la spesa pubblica e ?faccia ripartire i consumi

porsche, auto, fabbrica, germania
Il fronte russo agita le notti dei generali dell’armata industriale tedesca. E Angela Merkel, già sotto pressione dai parter europei che le chiedono di impegnarsi di più per sostenere la domanda interna e abbandonare la politica di austerità, deve ora fre i conti con la crisi Ucraina, molto rischiosa.

Prendiamo il settore auto auto, cuore e simbolo della potenza economica germanica. Secondo un’inchiesta di “Automotive news”, le tensioni a Est e il tracollo del mercato russo in giugno, con le immatricolazioni in calo del 17 per cento, stanno stravolgendo conti e previsioni delle quattro ruote.

La Daimler voleva aumentare la partecipazione nella locale Kamaz, produttore di camion, ma ha deciso di prendere tempo. La Opel ha dovuto chiudere la fabbrica di San Pietroburgo per alcune settimane. La Volkswagen, che attraverso il suo boss Martin Winterkorn nel 2013 aveva definito quello russo «il mercato numero uno dal punto di vista strategico in termini di crescita», ha venduto nel primo trimestre il 10 per cento in meno e dichiara oggi di monitorare con grande attenzione gli sviluppi della crisi Ucraina.

Uguale sorte tocca all’export del Made in Germany, che denuncia uno scivolone del 13 per cento nel primo trimestre (il 17 per cento solo per i macchinari). Laconica la risposta che dà Klaus Friederich, un esperto del Vdma, l’associazione dei produttori di macchinari e attrezzature: «Due aziende su tre del nostro settore risentono della crisi ucraina e il 60 per cento ammette di avere meno commesse dal sempre più difficile mercato russo».

Di questo passo, commenta il responsabile dell’Est per la Confindustria tedesca, Eckhard Cordes, si metteranno a rischio «non solo 25 mila posti di lavoro in Germania, ma anche il clima dei nostri investimenti e consumi interni». L’orizzonte appare ancora più fosco. Le sanzioni dell’Unione Europea, accelerate dopo l’abbattimento dell’aereo malaysiano, colpito molto probabilmente dagli ucraini separatisti, potrebbero costare alla Russia 23 miliardi di euro quest’anno e 75 miliardi nel 2015, pari al 4,8 per cento del Pil nazionale, e corrisponde probabilmente a verità quanto ha scritto il “Daily Telegraph” e cioè che Vladimir Putin non ha voluto rispondere alle telefonate fatte nel week-end scorso dalla Cancelliera Merkel.

L’alta tensione Mosca-Berlino potrebbe avere conseguenze ancora più gravi sia sull’economia tedesca sia, di riflesso, su quella italiana. Le avvisaglie emerse in Germania sono diverse. La rigorosa banca centrale Bundesbank, per esempio, sottolinea nel suo ultimo rapporto che l’economia si è fermata nel secondo trimestre, la produzione industriale «ha innescato una marcia ridotta in aprile e maggio» e che non è solo l’edilizia a manifestare un indebolimento della congiuntura.

Il governo ammette che in maggio la produzione industriale ha registrato una flessione dell’1,8 per cento (mai così male negli ultimi due anni) e che il settore chimico ha subìto addirittura una frenata del 3,5 per cento. I più recenti sondaggi sia tra gli imprenditori (Ifo) sia tra analisti e investitori internazionali (Zew-Index), quelli che interpretano sentimenti e aspettative per il futuro, registrano un segno meno.

Certo c’è anche il bicchiere mezzo pieno dell’economia tedesca, soprattutto se confrontata con quella anemica italiana: disoccupazione al 6,5 per cento, metà di quella media europea e ancora in calo; consumi baldanzosi con l’indice Gfk cresciuto di 8 punti in luglio, al livello più alto dal 2006; aumenti salariali previsti quest’anno tra il 2,4 e il 4 per cento, a sentire la Wsi, una fondazione vicina ai sindacati; gettito tributario in pieno boom a giugno, con il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble che si frega le mani per le entrate fiscali e prevede a fine anno un aumento del prodotto interno lordo dell’1,8 per cento. Il Fondo monetario (Fmi), per prendere un organismo terzo, ha appena stimato la crescita tedesca all’1,9 e quella italiana allo 0,3 per cento (vedi anche grafico sottostante).
650ok-jpg

Il premier italiano Matteo Renzi e il presidente francese François Hollande pagherebbero per avere un’economia come quella tedesca e per questo hanno più volte chiesto alla Cancelliera, come ammonito dallo stesso Fmi, di allargare la borsa, investire di più, espandere la domanda interna e aiutare così gli altri Paesi in difficoltà, anche perché lo straordinario surplus dell’export va ormai oltre le regole europee. L’impatto della crisi ucraina potrebbe cambiare un po’ le carte in tavola. La Germania non può vivere solo di risparmio e export, ora in parte sotto minaccia, e le pressioni per convincerla a consumare e investire di più si stanno rafforzando nella speranza di ottenere una risposta incoraggiante.

Il Fondo monetario è stato particolarmente duro. Ha sì lodato i risultati raggiunti per la stabilità dei conti e del mercato del lavoro, ma ha anche spronato il governo di Berlino a spendere di più in infrastrutture. Non bastano quei 5 miliardi stanziati per ponti e autostrade dalla grande coalizione Cdu e socialdemocratici. La Germania ha i margini finanziari, dicono al Fondo, per spendere in opere pubbliche fino allo 0,5 per cento del Pil. Quindi dieci volte la cifra decisa dal tandem Merkel-Gabriel, il leader dei socialdemocratici. Solo così può superare l’attuale fase di stallo «e assumersi il ruolo di traino nell’eurozona».

Economia
Marcel Fratzscher: "La Germania non può restare isolata"
4/8/2014
Una linea condivisa da molti governanti (il presidente americano Barack Obama incluso) ed economisti, tra i quali il premio Nobel Paul Krugman e il direttore dell’istituto berlinese Diw, Marcel Fratzscher. Tra l’altro le infrastrutture pubbliche non fanno certo onore all’organizzazione e alla mitizzata perfezione germanica, prova ne sia lo scandalo dell’aeroporto nuovo di Berlino, con la sua lunga battaglia politica, i costi lievitati anche per consentire la costruzione di un parcheggio riservato ai Vip, il budget sbagliato, il cantiere infinito e, ora, il rischio di fallimento.

Infine, tra le ricette divulgate nelle ultime settimane per ridare smalto all’economia c’è quella sorprendente della Bundesbank di aumentare i salari. Il capo economista Jens Ulbrich ha detto chiaro e tondo agli imprenditori che l’inflazione ai minimi storici e l’attuale congiuntura dovrebbe spingerli a dare più soldi ai dipendenti, a essere più generosi. A ciò si aggiunge la critica della Camera di commercio (Dihk), sottolineata in uno studio pubblicato di recente, nel quale si calcola in 80 miliardi all’anno il “buco” negli investimenti complessivi in impianti e strutture dell’Azienda Germania.

L’industria italiana non può che attendere e sperare nell’iniziativa di Berlino per rilanciare consumi e investimenti. Sono due Paesi che si conoscono bene e hanno un apparato industriale molto aperto dal punto di vista commerciale. Alla fine del 2013 l’export di beni e servizi contava il 50,7 per cento del Pil per la Germania e il 30,4 per cento per l’Italia, dati entrambi in sensibile aumento negli anni. Le importazioni, sempre di beni e servizi, sono scese qui al 28 per cento del Pil (dal 29,3 del 2008), mentre là sono addirittura aumentate dal 41,9 al 44,5 per cento del Pil, un po’ smentendo l’impressione che acquistino di meno fuori.

260-jpg

Come dimostrano grafici e tabelle riportati accanto i rapporti economici tra i due Paesi sono assolutamente privilegiati. La Germania resta tuttora per l’Italia il primo paese di esportazione, con una quota del 12,5 per cento, anche se la globalizzazione degli ultimi vent’anni ne ha fatto calare il peso specifico (nel 1995, secondo elaborazioni di Confindustria su dati Istat, era al 18,9 per cento). L’interscambio è forte e quasi sempre a favore dei tedeschi in termini di surplus. Il crollo della domanda interna italiana, rileva la Confindustria, ha comunque ridotto il deficit estero nei loro confronti. La Germania è di gran lunga il primo attivatore del valore aggiunto dell’industria manifatturiera italiana sia per i prodotti direttamente venduti su quel mercato sia per i semilavorati destinati a prodotti poi venduti lì sia, infine, per i semilavorati utilizzati per produzioni tedesche che poi finiscono su altri mercati. Contemporaneamente l’industria tedesca è la prima beneficiaria della domanda interna italiana.

Molti imprenditori cominciano così a preoccuparsi per lo stallo di Berlino. Le imprese metallurgiche, per fare un esempio, vendono soprattutto in Germania e se la “locomotiva” dovesse fermarsi, ha lasciato intendere il presidente dell’Assofond (l’Associazione italiana delle fonderie) Roberto Ariotti, l’attuale super-euro non consentirebbe neanche di consolarsi facendo grandi affari sui mercati emergenti o extra-Ue.

Occhi puntati dunque sul Bundeskanzleramt, la Cancelleria tedesca. Dalle mosse della Merkel e dell’alleato socialdemocratico dipenderanno non solo il futuro dell’armata industriale tedesca ma anche quello delle truppe del Made in Italy. E non è un caso se le Borse europee stiano pagando la tensione crescente sul fronte russo.

L'edicola

Le radici culturali dell'Europa, antidoto al caos

Contro la crisi identitaria del Continente non c’è che uno sbocco: la riaffermazione dei valori comuni

La copertina del decimo numero: "Vieni avanti, straniero".