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Economia
agosto, 2015

Agnelli, Pirelli e Pesenti: le famiglie del capitalismo italiano scappano all'estero

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Italcementi diventa tedesca, Tronchetti Provera vende ai cinesi, la Fiat Chrysler investe in America. E l'Italia perde la sfida della competizione globale

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Si racconta che Enrico Cuccia, interrogato sul destino della banca che aveva inventato, tagliasse corto con una battuta: «È finito l’impero romano, finirà anche Mediobanca». A quindici anni dalla morte del finanziere più famoso e meno loquace della storia d’Italia, possiamo dire che Cuccia aveva peccato d’ottimismo. O di pessimismo. Dipende dai punti di vista. Perché la Mediobanca dei giorni nostri si è data regole nuove per sopravvivere e la sua fine, pronosticata da molti, è rinviata a data da destinarsi. Nel frattempo però sta scomparendo il capitalismo made in Italy, quello che Cuccia tenne insieme per decenni a suon di alchimie finanziarie e incroci azionari.

È cronaca di questi giorni. I Pesenti, la famiglia bergamasca che da almeno tre generazioni recita da protagonista sul palcoscenico del potere nostrano, ammainano la bandiera e vendono Italcementi a un grande concorrente straniero, la tedesca Heidelberg. Neppure cinque mesi fa era toccato alla Pirelli, ceduta da Marco Tronchetti Provera ai cinesi di ChemChina. Per non parlare di Fiat-Chrysler, che ormai dipende da Detroit, ha sedi legali e amministrative divise tra Londra e Amsterdam e sta cercando attivamente un nuovo partner, forse General Motors, per reggere l’urto della competizione globale. Sarà questa l’ultima sfida, la più importante, di Sergio Marchionne. Intanto gli Agnelli, forti di una liquidità miliardaria anche per effetto della vendita della svizzera Sgs, scelgono di investire ben lontano dai confini nazionali (e ben lontano dall’auto), nel colosso assicurativo PartnerRe, che ha radici negli Usa e attività in mezzo mondo. L’operazione, a lungo in bilico, si è chiusa lunedì 3 agosto e dimostra una volta di più che la famiglia torinese considera ormai l’Italia come una provincia di retrovia del proprio impero.

Tutti questi episodi, messi insieme e letti in sequenza, indicano l’accelerazione, un’accelerazione netta, di un processo iniziato anni fa e da tempo segnalato da tutti gli analisti: le grandi imprese private italiane, spina dorsale di quel che resta dell’industria nazionale, stanno diventando la succursale di colossi globali con interessi e centri decisionali distanti migliaia di chilometri dalla Penisola.

Estinzione di una specie

In una fase di consolidamento internazionale le nostre aziende «finiscono quasi immancabilmente per fare la parte delle prede», ha commentato sul sito “lavoce.info” Fabiano Schivardi, docente di economia industriale all’Università Bocconi. Il problema, sottolinea Schivardi, è che i gruppi italiani di dimensioni medio-grandi sono in gran parte a controllo familiare, «poco adatti a evolversi nei global player che stanno guidando il consolidamento» su scala mondiale. Perfino Ferrero e Barilla, due dinastie che ancora resistono al comando delle rispettive aziende, viaggiano lontano dalle dimensioni dei loro maggiori concorrenti a livello internazionale.

A ben guardare, però, non è solo una questione di famiglie. La parabola di Telecom Italia, per esempio, è facile da leggere come la disfatta di una classe dirigente a corto di capitali e di idee. Dopo la privatizzazione del 1997, la più grande impresa di servizi del Paese, più strategica che mai visto che si occupa di telecomunicazioni, è passata di mano in mano (Colaninno-Gnutti, Tronchetti Provera, Mediobanca e soci con la spagnola Telefonica) per poi finire la corsa a Parigi, tra le braccia di Vincent Bolloré.

Rispettando alla lettera un copione scritto fin dall’autunno scorso, a primavera sono infatti uscite di scena Generali, Intesa e Mediobanca. Il gruppo francese Vivendi guidato da Bolloré, è così diventato l’azionista di comando di Telecom Italia, forte di una quota del 15 per cento circa. Alle sue spalle, con una partecipazione del 2 per cento, troviamo la People’s Bank of China. Un’ulteriore conferma, semmai ce ne fosse bisogno, dell’estinzione di una specie, quella dei grandi investitori italiani. Finita l’epoca delle alleanze nel segno di Cuccia, non è più tempo neppure per le cosiddette banche di sistema, come aspirava a diventare Intesa ai tempi in cui era gestita dall’allora amministratore delegato Corrado Passera, ora politico a tempo pieno dopo la breve esperienza da ministro.

Nella visione di Passera, il modo più semplice ed efficace di far fronte alla cronica carenza di capitali delle grandi imprese nostrane (e di recuperare gli ingenti prestiti a suo tempo elargiti) era l’intervento diretto degli istituti di credito, anche come azionisti. Dalle parole ai fatti, Intesa è scesa in campo nel salvataggio Alitalia, ha messo insieme un reticolo di partecipazioni nel settore autostradale, ha preso una quota rilevante di Telecom Italia.

Si è visto come è andata a finire. L’avventura nelle telecomunicazioni si è chiusa in profondo rosso, le attività autostradali sono in vendita e Alitalia, per evitare il secondo fallimento in cinque anni, è stata costretta a chiedere l’intervento dei capitali arabi targati Etihad, la compagnia aerea di Abu Dhabi. Del resto, con la crisi dei mercati finanziari che a partire dal 2008 ha lasciato segni profondi nei loro bilanci, le banche erano troppo impegnate a salvare se stesse per occuparsi dei guai altrui.

Ribaltone Cdp

Archiviata la breve stagione degli interventi di sistema, ora il governo di Matteo Renzi guarda alla Cassa depositi e prestiti (Cdp), alimentata dal risparmio postale degli italiani, come polmone finanziario destinato a finanziare le aziende e i progetti considerati strategici per il futuro del Paese. Il nuovo corso della Cdp è stato inaugurato il mese scorso con il ribaltone nei posti di comando, dove si sono appena insediati Claudio Costamagna, alla presidenza, e Fabio Gallia, ex Bnl, coi gradi di amministratore delegato e direttore generale. Superato lo scoglio delle nomine, si dovrebbe entrare nel merito dei prossimi interventi. Si è molto parlato di acciaio, quello dell’Ilva di Taranto che ha urgente bisogno di investimenti miliardari e strategie chiare per evitare la chiusura.

All’ordine del giorno, però, c’è anche un altro dossier altrettanto importante, quello della banda larga, l’infrastruttura digitale più che mai necessaria per agganciarsi al treno della ripresa economica. Qui l’Italia ha accumulato un ritardo di anni e anni nei confronti dei maggiori Paesi europei e se l’esecutivo vuol recuperare il tempo perduto non potrà che avere Telecom Italia come interlocutore privilegiato. Ed ecco, allora, che si torna a Bolloré. Sarà lui, un francese, uno straniero, a dare le carte in una partita decisiva come quella della banda larga.

Del resto, l’ex monopolista telefonico è stato solo l’ultimo tra gli operatori telefonici nazionali a finire in mani straniere. L’inglese Vodafone si è presa la vecchia Omnitel. Wind è finita ai russi di Vimpelcom dopo un paio di cambi di mano. Tre, invece, fa capo ai cinesi di Hutchinson Wampoa. È Telecom Italia, però, a controllare oltre all’infrastruttura di rete, quella su cui corrono voce e dati, anche il cosiddetto “ultimo miglio”, il tratto finale che va dalle centraline telefoniche all’utente finale. Tra campagne mediatiche e giochi di lobby, le grandi manovre sulla banda larga sono in pieno svolgimento e l’esito del confronto appare quanto mai incerto.

Intanto, però, Vivendi ha già colto un primo importante successo: con la scalata a Telecom Italia ha conquistato lo snodo centrale dei futuri assetti della telefonia nostrana. E molti analisti vedono il gruppo francese, che Oltralpe possiede la pay tv Canal+, pronto a giocare un ruolo da protagonista anche in campo televisivo, dove invece la partita si gioca con Sky e la Mediaset di Silvio Berlusconi.

Dinastie alla cassa

Bolloré può permettersi di aspettare. A una quindicina d’anni dalla sua prima apparizione sulla scena italiana, si può dire che l’investitore transalpino ha saputo giocare con abilità le sue carte. Nessuno meglio di lui è riuscito a infilarsi nel vuoto di potere che si è creato ai vertici della finanza italiana dopo la morte di Cuccia, nel 2000, e l’uscita di scena, tre anni dopo, del suo delfino Vincenzo Maranghi. È stata una lunga marcia, tra scalate in Borsa e cambi di alleanze. Adesso, quello che era l’outsider francese è diventato il secondo azionista di Mediobanca. La sua quota dell’8 per cento, è inferiore solo a quella di Unicredit, con l’8,6 per cento.

La creatura di Cuccia si avvia a diventare una banca d’affari come le altre, una banca che cerca nuovi spazi anche all’estero. Per esempio comprando una società di gestione di patrimoni a Londra, la Caim. Un affare concluso proprio martedì 4 agosto.Nel suo scrigno, l’istituto ora guidato da Alberto Nagel conserva un pacchetto di titoli pari al 13 per cento delle Generali. Un gioiello di gran valore, ma il salotto buono ormai non c’è più. Gli eredi delle grandi dinastie industriali hanno un futuro altrove. Proprio come i Pesenti, che hanno ammainato la bandiera sulle cementerie di famiglia in cambio di un miliardo cash e una piccola partecipazione, non oltre il 5 per cento, nel capitale dei compratori.

Mezzo secolo fa, Carlo Pesenti, nonno e omonimo dell’attuale capoazienda, governava un gruppo che spaziava dal cemento alle banche (la milanese Ibi) alle case automobilistiche, la Lancia poi ceduta alla Fiat. Adesso Carlo secondo, il nipote, si è affrettato a spiegare in un’intervista che «non ci dimettiamo da imprenditori». Parole che suonano come la promessa di futuri investimenti finanziati dal fiume di contanti appena incassato. Resta da vedere se anche i Pesenti, come già gli Agnelli, non cercheranno occasioni all’estero. L’Italia avrebbe una famiglia di miliardari in più, ma resterebbe con una grande azienda in meno.

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