Gli 007 della Banca d’Italia hanno un’ispezione sull’attività per valutare la trasparenza delle operazioni e la correttezza delle relazioni con la clientela. Evidenziando non solo poca chiarezza nei Libretti Smart e Buoni fruttiferi postali
Sui buoni fruttiferi postali puoi contare sempre. Sono Buoni al 100 per cento». Lo dice la voce fuoricampo dello spot di Poste Italiane, mentre lo sceriffo trascina il cattivo coi polsi legati sulla main street del villaggio western e in sottofondo riecheggia in chiave country la mitica “House of Rising Sun” di Eric Burdon. Qual è il messaggio del filmino? Questo: i maneggioni del risparmio altrui sono altri, mica noi, che offriamo Buoni e Libretti garantiti dallo Stato. Ciò non toglie che una solenne arrabbiatura l’hanno fatta venire, a migliaia di risparmiatori, i vecchi Buoni, antenati di quelli pubblicizzati dallo spot del Far West. Centinaia di sottoscrittori hanno infatti scoperto che il rendimento è stato inferiore alle aspettative.
Anche sul fronte dei vaglia postali c’è maretta, perché a chi chiede indietro i quattrini versati e non incassati dagli interessati viene risposto picche. I motivi di frizione con una fettina dello sterminato pubblico di risparmiatori delle Poste (33 milioni) sono diversi e una delle trincee più calde è quella dei Libretti postali Smart, che sbandieravano rendimenti fino al 3 per cento annuo lordo, glissando sul puzzle di combinazioni da incastrare per ottenerli.
Sgombriamo subito il campo da impropri accostamenti. Le tirate d’orecchie arrivate a fine anno alle Poste dall’Antitrust, così come i rimbrotti dell’Arbitro bancario finanziario (Abf), non evidenziano comportamenti odiosi e scorretti del livello raggiunto dalle quattro banche (Etruria, Marche, CariChieti, CariFerrara) che hanno polverizzato i risparmi di migliaia di persone, ad esempio con gli ormai celebri “bond subordinati” divenuti carta straccia.
Però nel “porto sicuro” del BancoPosta, ogni tanto qualche imbarcazione può, diciamo così, andare a sbattere. Lo conferma la multa da 540 mila euro che l’Agcm, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ha appena rifilato a Poste per una pubblicità “ingannevole” mandata in onda a inizio 2015, che avrebbe contribuito a convincere tra 100 e 500 mila italiani a investire fino a 5 miliardi - sostiene l’Antitrust - sui Libretti postali Smart. Senza ottenere quegli interessi decantati dagli spot. Poste Italiane non è d’accordo: può fare ricorso al Tar e lo farà, rivela a “l’Espresso”.
Gli 007 della Banca d’Italia hanno avviato in settembre un’ispezione sull’attività di BancoPosta, per valutare la trasparenza delle operazioni e la correttezza delle relazioni con la clientela. Gli ispettori di Bankitalia hanno non solo evidenziato poca chiarezza nei Libretti Smart, ma pure messo nel mirino i Buoni fruttiferi postali, oltre che le irregolarità emerse nell’attività dei vaglia postali non trasferibili.
IL CONTRATTO? 19 CAMBI IN TRE ANNI
I libretti Smart in due anni e mezzo di vita hanno raccolto quasi due milioni di adesioni. La loro caratteristica era un rendimento apparentemente alto (fino al 3 per cento, nel 2013), considerati tranquilli perché garantiti dallo Stato. Ottenere l’interesse alto, però, si è rivelato tutt’altro che facile, perché le condizioni da rispettare erano tante e per di più sono cambiate 19 volte in tre anni.
Per esempio: attivare, insieme al libretto, anche la carta libretto, una sorta di bancomat; versare almeno 300 euro al mese in contanti o assegni, ma non con bonifici; usare l’home banking di Poste; mantenere sul libretto almeno il 90 per cento del capitale inizialmente investito. I molti che non hanno rispettato tutte le condizioni si sono ritrovati con interessi più bassi del previsto.
A migliaia sono stati invogliati dai messaggi pubblicitari e dagli addetti del BancoPosta a passare dai vecchi libretti a quelli nuovi, proprio in forza dell’interesse più alto prospettato. Però chi non ha superato indenne il percorso a ostacoli s’è dovuto accontentare del tasso base. Inferiore a quello garantito - senza se e senza ma - dal vecchio e semplice libretto.
Chi s’è imbufalito ha scritto all’ufficio reclami di Poste, che ha risposto “niet”, sostenendo il non rispetto delle clausole. Per l’Antitrust, però, le suddette clausole erano «scritte a caratteri molto piccoli, che non risultano leggibili». I più agguerriti degli scontenti - qualcuno di loro, sui Libretti Smart, aveva puntato anche 200 mila euro - si sono rivolti alle associazioni consumatori, all’Antitrust e soprattutto all’Abf, l’Arbitrato indipendente sostenuto dalla Banca d’Italia, nato per risolvere le controversie senza passare dal tribunale.
A proposito del Libretto Smart l’Abf ha emesso 58 pronunce, per metà sfavorevoli alle Poste; anche nelle sentenze in cui le ha dato ragione, tuttavia, l’Abf non è stato tenero con la società guidata da Francesco Caio dal maggio 2014, pennellando rilievi assai critici. Tipo: «Ha consentito ai clienti di aderire alla “promozione” ... in un momento in cui risultava ... mancante una delle condizioni». Oppure: esistono «fondate perplessità riguardo al rispetto dei principi di correttezza e trasparenza» o condizioni non «cristalline, eccessivamente complesse e frammentate».
La maggior parte delle decisioni Abf riguarda clienti passati dal vecchio al nuovo libretto, che confidavano su una certa redditività mentre, già in partenza, non avevano i requisiti per acchiapparla. Fra i ricorsi all’Arbitrato c’è il caso di un cliente romano che a novembre 2012 aveva 2.900 euro su un libretto ordinario. Qualche mese dopo è passato al libretto Smart versando solo 2 mila euro: nonostante nei mesi successivi abbia depositato più di 60 mila euro su quel conto, ha ricevuto solo 183 euro in interessi anziché i 1.800 euro che si aspettava.
Cos’è successo? L’addetto delle Poste avrebbe dovuto spiegare sin dal principio al cliente che non aveva il requisito minimo per ottenere l’interesse “premiale” (cioè del 3 per cento, all’epoca). È successo pure a Napoli, dove un pensionato ha messo fino a 202 mila euro sul libretto, avendo in cambio un interesse di 392 euro anziché i 1.950 euro attesi. In tutti questi casi l’Abf ha dato ragione ai risparmiatori, perché non erano stati avvisati della loro “falsa partenza”.
Altre sentenze Abf riguardano anziani che hanno aperto il libretto Smart pensando che fosse sufficiente il versamento della pensione, per ottemperare all’obbligo di mettere 300 euro mensili sul conto. Invece no: i soldi dovevano essere depositati in contanti o con assegno, mentre la pensione arriva direttamente dall’Inps. È successo sempre a Roma, dove una pensionata, che si attendeva oltre 6 mila euro di interessi, ne ha ricevuti appena mille.
ERRORI DI STAMPA E VAGLIA DORMIENTI
È però il Buono fruttifero l’articolo di Poste Italiane che ha scatenato il maggior numero di proteste. Altroconsumo ha ricevuto 650 segnalazioni in due anni, altrettante l’Aduc, e già decine sono stati gli interventi dell’Abf. «Molti titolari si sono visti riconoscere un tasso d’interesse più basso di quello riportato sul retro del buono. Spesso si tratta di un errore di stampa, perché sul retro dei buoni postali di serie Q, per esempio, era rimasto stampato il tasso d’interesse più alto previsto dalla serie P», racconta Anna Vizzari, responsabile giuridica di Altroconsumo.
«Tra i clienti delle Poste ci sono molte persone totalmente digiune di conoscenze finanziarie, dunque poco informate e più vulnerabili. E a rendere più pasticciata la situazione si aggiunge la scarsa preparazione media degli addetti del BancoPosta», è l’accusa dell’avvocato Alessandro Pedone dell’Aduc, un’altra associazione per i diritti di consumatori. Anche su un prodotto apparentemente “neutro” come il vaglia infuriano le schermaglie.
Tutto ruota intorno ai tempi: la società ritiene che se il destinatario dei soldi inviati con un vaglia non li incassa entro i due anni (o chi ha fatto la spedizione non li richiede indietro) la somma debba restare in mano alle Poste.
Per l’Arbitrato, il mittente può riavere i soldi indietro per dieci anni. Morale: se chi ha inviato vaglia non ritirati non alza la voce chiedendo all’arbitro di intervenire, difficilmente rivedrà indietro i suoi denari. Poste Italiane spiega però a “l’Espresso” di aver restituito, nel periodo 2013-2015, circa 4,3 milioni di euro (760 casi) e di aver ampliato dall’aprile scorso la platea dei rimborsati. Lamenta tuttavia Pietro Giordano, presidente di Adiconsum: «Bisogna sempre bussare all’Arbitrato quando rubano o clonano una carta prepagata ricaricabile Postepay, altrimenti l’ufficio reclami rigetta le richieste di rimborso».
Squilla il telefono L’ultima gatta da pelare, per il gigante pubblico, non ha nulla a che fare con gli attuali clienti. È la delibera del 4 gennaio con cui l’Antitrust ha intimato a Poste Italiane di spalancare le porte alla concorrenza - e non in senso figurato - nel campo dei servizi telefonici.
Poste Mobile, l’operatore virtuale lanciato con grande successo, per conquistare utenti può contare sulla capillare rete di uffici postali, oltre 13 mila, che in molti casi sono l’unica presenza attiva in un piccolo centro, e aiutano a far vendere bene di tutto.
Alle Poste è riuscito con le assicurazioni e i prodotti finanziari, campionati in cui è divenuta una big in fretta, provocando non poche reazioni dei concorrenti, cioè le banche e le compagnie d’assicurazioni, che alla fine se ne sono fatte una ragione.
Non si è arresa però H3G, che da ottobre 2014 chiede, come prevede la legge, di accedere, alle stesse condizioni di Poste Mobile, agli uffici postali in cui opera il player virtuale di Poste Italiane. La società diretta da Caio avrebbe fatto catenaccio, con atteggiamenti dilatori e poco collaborativi. Ora l’arbitro le ha ordinato di far entrare la concorrenza alle stesse condizioni di Poste Mobile. Se non si adeguerà al diktat dell’Antitrust, la sanzione potrebbe essere colossale, fino al 10 per cento del fatturato delle Poste (che nel 2014 è stato di 28,5 miliardi). La società non ci sta, dice di non aver mai negato il dialogo e si prepara a ricorrere al Tribunale amministrativo. Tuttavia i negoziati sono cominciati e anche Vodafone e Wind sono della partita. Anche se loro due un’eventuale, cospicuo risarcimento per danni per un anno di “mancata concorrenza”, non lo potranno richiedere. La H3G, invece sì.