Mario Draghi parla e i mercati azionari tornano a respirare, anche se la tempesta degli ultimi giorni sembra concedere per il momento solo una tregua. Oggi la Banca centrale europea guidata dal banchiere italiano ha deciso di lasciare immutati i tassi, una scelta largamente attesa. Le novità più interessanti sono però arrivate nella conferenza stampa seguita alla riunione del comitato esecutivo della Bce, durante la quale Draghi ha mandato una serie di segnali molto precisi, volti a riportare un po' di fiducia sui mercati, su vari fronti. Gli effetti sono stati immediati e la Borsa di Milano, dopo i tonfi dei giorni scorsi, è arrivata a recuperare oltre il 4 per cento, prima di frenare nuovamente. Più contenuti i movimenti sugli altri listini europei, che non hanno conosciuto nella prima parte della settimana l'entità dei crolli subita sul mercato italiano dal settore bancario. «Il presidente della Bce ha voluto con forza sottolineare il fatto che la banca centrale ha gli strumenti necessari per affrontare le turbolenze che in questi giorni abbiamo visto sui mercati», spiega Marcello Minenna, docente di finanza alla London Graduate School.
Tanti gli spunti arrivati dalle risposte alle domande dei giornalisti. In primo luogo c'è il fatto che, alla luce di un'inflazione che resta più debole del previsto, è necessario «riesaminare e riconsiderare la propria politica monetaria al prossimo vertice», che si terrà in marzo, quando saranno disponibili «le nuove proiezioni macroeconomiche che copriranno anche il 2018», ha spiegato Draghi. Poi, un punto che riguarda da vicino le banche italiane, al centro della tempesta degli ultimi giorni per effetto dei dubbi sulla necessità di nuovi aumenti di capitale per far fronte alle perdite sui crediti inesigibili: «Non c'è niente di nuovo», ha detto Draghi, aggiungendo che dalla vigilanza sul sistema bancario europeo (che ora fa capo alla Bce) «non è stato chiesto alle banche nessun nuovo e inatteso accantonamento o una nuova richiesta di aumento di capitale».
Minenna, che è autore di un saggio sull'euro intitolato “La moneta incompiuta” (Ediesse editore), ritiene «importanti» i segnali arrivati, su vari fronti: il fatto che la Bce si appresti a «riconsiderare» la politica monetaria potrebbe aprire le porte a un ampliamento dei titoli che possono essere consegnati a Francoforte per accedere alla liqhuidità del “quantitative easing”, oggi sostanzialmente limitati ai titoli di Stato. E pensa che, in questa prospettiva, «potrebbe essere utile accelerare il meccanismo che era stato delineato dalla Bce con il documento numero 45 del 2014, e cioè il riacquisto di titoli del settore privato». Minenna fa questa ipotesi: «La Bce potrebbe farsi carico dei rischi connessi ai crediti delle banche, attraverso titoli che li impacchettano, come ad esempio i cosiddetti “asset backed securities”, opportunamente assistiti da una garanzia dello Stato». Un'ipotesi, appunto, che il docente indica «fra quelle possibili, ma che avrebbe l'effetto di alleggerire le tensioni che gravano sul sistema bancario. Ora vedremo come la Bce vorrà concretizzare gli impegni presi».
Va detto che, al di là dell'intervento di oggi, sui mercati restano motivi di grave incertezza. Il più determinante di tutti, che guida il “sentiment” negativo di questi giorni, è la situazione cinese, che sembra essere fuori dal controllo delle autorità nazionali. I dati forniti dal governo di Pechino sono infatti notoriamente poco trasparenti, e spesso manipolati per ragioni politiche. Il dato della crescita del Pil nel 2015, che si è fermato al 6,9 per cento (quindi sotto le previsioni ufficiali del 7 per cento), è con ogni probabilità molto più basso. Le stime degli analisti indipendenti cinesi convergono su un valore della crescita che si fermerebbe al 5,4 per cento, ma alcune banche di investimento americane temono che il dato reale sia addirittura più basso. «Il punto è dunque che la Cina sta rallentando come mai successo negli ultimi trent'anni e questo ha delle ripercussioni enormi. Da sola, la Cina contribuisce ad oltre il 20 per cento della crescita del Pil mondiale, ma i legami commerciali con il resto del mondo sono determinanti nell’influenzare la salute delle altre economie», spiega Minenna.
Anche su questo Draghi ha voluto mandare un messaggio tranquillizzante, dicendo che le autorità cinesi «stanno riprendendo il controllo della situazione». Il problema, spiega Minenna, è però il contraccolpo della frenata dell'economia cinese sui Paesi che vi sono più legati: «La Cina importa oltre 6 milioni di barili al giorno di petrolio dal resto del mondo, è la prima in assoluto; è inoltre tra i più grandi importatori di carbone, rame, zinco e alluminio. La domanda cinese influenza le economie di quasi tutti i Paesi esportatori, che sono tra le economie emergenti degli ultimi anni e che compongono la spina dorsale della crescita globale, come Brasile, Australia, Russia, Sud Africa, India».
Poi c'è la questione petrolio. Se riduce certamente il costo della benzina che gli italiani sono costretti a pagare quando fanno il pieno, il crollo del prezzo del greggio rappresenta un altro elemento di destabilizzazione dei mercati. Il calo prosegue da oltre 18 mesi a tassi strabilianti, per via di un eccesso di offerta che sta tendendo addirittura ad aumentare. Si ha eccesso di offerta perché: da un lato la domanda cinese sta guidando quella globale verso il basso, dall’altro l’offerta continua a crescere. Un ulteriore elemento di disturbo si è aggiunto negli ultimi giorni, quando il prezzo è precipitato sotto la soglia psicologica di 30 dollari al barile: l’Iran, ora libero dalle sanzioni che ne limitavano le esportazioni, ha dichiarato che aumenterà la propria produzione di 500 mila barili al giorno. «Questa inondazione di nuovo petrolio inibisce ogni velleità di rimbalzo del prezzo. Semplicemente non può succedere a breve che il prezzo torni su, se non per ragioni speculative e per brevi periodi. Che possa scendere ancora, è possibile ma anche assai difficile», spiega Minenna.
In questa situazione, il presidente della Bce ha puntato il proprio obiettivo sulle relazioni che il petrolio ha con l'economia europea. Draghi ha sottolineato che il calo del prezzo «dovrebbe sostenere ulteriormente i redditi delle famiglie e la redditività delle imprese e, di conseguenza, il consumo privato e gli investimenti». Minenna osserva però che, a fronte di queste aspettative, ci sono rischi globali consistenti. E che c'è addirittura quello che chiama un “black swan”, un cigno nero, come viene indicato un elemento «che potrebbe portare uno shock sui mercati tale da abbassare il prezzo sotto i 20 dollari ed oltre». Spiega il docente: «Attualmente tra il Riyal dell’Arabia Saudita ed il Dollaro USA c’è un tasso di cambio fisso, che dura da oltre 30 anni e che fissa il prezzo sui mercati internazionali. Questo cambio è rimasto granitico per via delle immense riserve di ricchezza accumulate dall’Arabia Saudita in fondi sovrani ed in valuta internazionale. L’Arabia Saudita è inoltre uno dei pochi Paesi che fino al 2014 non aveva debito pubblico. Il quadro è cambiato nel 2015: il basso prezzo ha decimato le entrate del governo saudita, che è stato costretto a fare debito per il 20 per cento del Pil. Un prezzo sotto i 30 dollari potrebbe portare l’Arabia Saudita a un debito pari al 100 per cento del Pil in pochi anni. E qualche speculatore sta già scommettendo contro la tenuta del cambio fisso tra Riyal e dollaro». Al momento, dice Minenna, questi speculatori «sono pochi, e la banca centrale saudita ha tante riserve di valuta da spendere a difesa della moneta. Tuttavia non si può escludere che questo cambio possa saltare nel futuro prossimo; in quel caso il Riyal si svaluterebbe sul dollaro ed il prezzo del petrolio in dollari crollerebbe di conseguenza. In questo caso, sì, il prezzo del petrolio potrebbe anche arrivare a 10 dollari, prima che i Paesi produttori reagiscano e taglino finalmente la produzione». Un bene? Per nulla, dal punto di vista della crescita dell'economia globale: «Il prezzo del petrolio sotto i 30 Dollari ha già mandato tecnicamente in recessione Brasile, Russia e Sud Africa. E il prezzo basso del carbone sta mettendo in difficoltà l’Australia. I motori della crescita globale sono tutti inceppati».