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Economia
ottobre, 2016

Tutta la verità sui conti pubblici italiani

Tagli alle tasse. Pensioni più ricche. E perfino soldi per il ponte sullo Stretto. Li annuncia Renzi mentre tratta con Bruxelles su quanto potrà spendere. Così il governo cerca di far quadrare il bilancio. Ecco dove ci sta riuscendo. E dove no

A Matteo Renzi la parola tagli sembra non andare giù. «L’Italia deve smetterla con i tagli lineari», ha detto il premier martedì 27settembre, parlando ai medici e agli infermieri dell’ospedale San Raffaele di Milano. Materia caldissima, quella della spesa pubblica e della sanità. Perché mentre Renzi passava da un appuntamento all’altro tra la metropoli lombarda e Verona, mostrando al mondo il progetto del futuro Human Technopole e resuscitando lo zombie del ponte sullo Stretto di Messina, il ministro Pier Carlo Padoan studiava il modo di far quadrare i conti con Bruxelles.

Il problema è noto: la crescita economica sta rallentando e gli obiettivi indicati fino a qualche tempo fa, la diminuzione delle tasse, la riduzione del deficit pubblico, la limatura del debito, sono più difficili. Padoan ha già alzato dall’1,8 al 2 per cento - in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil) - l’obiettivo del deficit nel 2017. Ma il governo spera di portare a casa un altro margine di flessibilità, spingendo il deficit fino al 2,4 per cento, per le spese di ricostruzione post terremoto e l’emergenza-migranti.

In questo contesto, il premier non ha rinunciato a rilanciare su molti fronti, sorvolando gli ostacoli che rendono il percorso indicato una sfida ai limiti della temerarietà. Sulla sanità: «È evidente che si è tagliato troppo». Sul ponte che fa sognare molte persone che vivono nella zona, imbufalire il resto d’Italia: «Noi siamo pronti». Sugli anziani che vivono con la pensione minima: «Raddoppieremo la quattordicesima».

Tutto mentre ancora risuonavano le parole di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea (Bce), sul fatto che nelle regole dell’Unione sui conti pubblici «c’è già molta flessibilità» e che i Paesi dovrebbero «pensare più alla composizione del bilancio piuttosto che alla sua dimensione». Tradotto: non chiedete quattrini, usate meglio quelli che avete.

La carica delle cavallette
Ma qual è la verità sui conti pubblici, tra l’ottimismo di Renzi, il pragmatismo preoccupato di Draghi e la marcia funebre suonata dall’opposizione, che conta sul tramonto delle speranze seminate dal premier per vederlo finire nella polvere? Per capirlo, si può partire dai numeri. Guardateli bene: rappresentano l’effetto più consistente della politica espansiva intrapresa dalla Bce, con i tassi d’interesse sotto zero e i massicci acquisti di titoli di Stato effettuati negli ultimi diciotto mesi.

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Nel 2012, prima che si profilasse all’orizzonte il Quantitative easing (QE) fortemente voluto da Draghi e osteggiato a oltranza dai falchi tedeschi, in particolare dal numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann, lo Stato italiano aveva speso in interessi sul debito pubblico 85 miliardi. Nel 2015, quando il QE è entrato in azione, questa voce del bilancio pubblico è precipitata a 68 miliardi, una soglia che dovrebbe diminuire ancora quest’anno. In pratica, rispetto al 2013, l’ultimo anno prima del suo arrivo a Palazzo Chigi, il governo Renzi ha beneficiato di un risparmio di una decina di miliardi di euro. La critica che all’Italia fanno Weidmann e i rigoristi, a cominciare dal ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble, è di essersi comportata un po’ come la cavalletta: ci siamo divorati un’occasione d’oro, forse irripetibile, per ridurre in misura consistente il deficit pubblico.

Il virus del debito
In questi anni, infatti, l’Italia ha continuato ad accusare un consistente disavanzo fra le entrate e le uscite: il “buco” nei conti dello Stato era profondo 47 miliardi nel 2012, era sceso a 43 miliardi nel 2013, è rimasto a 42 miliardi nel 2015. Va bene, è un po’ diminuito in rapporto al Pil, l’indicatore che misura la ricchezza generata in un anno da un Paese. Ma non si può parlare di una sforbiciata definitiva, in grado di avviare quel che in realtà conterebbe di più: la diminuzione del debito pubblico. Proprio lì sta il virus che infetta la credibilità dell’Italia, nell’enorme debito che le nostre generazioni hanno ereditato dal passato, in particolare dall’era folle e corrotta del Caf, come veniva chiamato l’asse portante dei pentapartiti anni Ottanta, quello di Craxi-Andreotti-Forlani. Ogni anno che si chiude con un disavanzo tra entrate e perdite, infatti, il Tesoro è costretto a emettere nuovi Btp e altri titoli di Stato, in quantitativi maggiori di quelli che giungono a scadenza.

Attacco al cuneo fiscale
Ecco perché il debito complessivo continua a lievitare: era a 2.069 miliardi di euro a fine 2013, ha toccato la cifra record di 2.252 miliardi nel luglio 2016. Va detto che in estate è sempre più elevato rispetto al mese di dicembre, quando i conti pubblici vengono fotografati dalla Commissione europea, quindi a fine anno potrebbe andare un po’ meglio. Ma tant’è, la rotta è segnata, il continuo aumento del debito pubblico è un dato di fatto.

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Da questi numeri, si potrebbe pensare che Renzi sia stato lì due anni e mezzo a girarsi i pollici. Questa percezione può essere ingigantita dalle miriade di iniziative in cui, sul fronte dei conti, il suo governo dà l’impressione di aver disperso le proprie energie, a volte con motivazioni soltanto elettorali, senza puntare su pochi e selezionati obiettivi, come gli consigliava qualche tempo fa Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat-Chrysler.

Fedele De Novellis, partner del centro studi Ref Ricerche, ha però elaborato alcune cifre che mettono in discussione questa percezione. In un contributo scritto per il “Rapporto 2016” sulla finanza pubblica italiana, storica pubblicazione edita da Il Mulino, l’economista ha osservato che gli interventi più significativi realizzati dal governo, in termini di risorse impiegate, si concentrano infatti nella riduzione del cosiddetto “cuneo fiscale”, ovvero la forte componente del costo del lavoro sostenuto dalle imprese che non finisce nelle tasche dei lavoratori. Le tasse, i contributi e le varie trattenute, per intenderci. Ecco l’elenco e il costo previsto per il 2016 di tutti i provvedimenti che sono andati in questa direzione sin dalla legge di Stabilità per il 2014 varata dal governo Letta e poi nelle due successive di Renzi: aumento della detrazione Irpef per il lavoro dipendente (1,7 miliardi), riduzione dei contributi per l’assicurazione infortuni sul lavoro (1,2 miliardi), 80 euro (9,5 miliardi), deducibilità del costo del lavoro dall’Irap (4,5 miliardi), sgravi contributivi per i contratti a tempo indeterminato (4,5 miliardi), detassazione dei premi di produttività (438 milioni). Tutto insieme fanno quasi 22 miliardi, una montagna di quattrini.

Chi vince con il fisco di Matteo
«Anche se lo ha fatto in maniera non dichiarata, attraverso una serie di iniziative che sembrano scollegate l’una dall’altra, il governo ha effettuato una chiara scelta politica: ridurre il cuneo fiscale, nell’intento di favorire la competitività delle imprese attraverso una riduzione del costo del fattore lavoro», osserva De Novellis, secondo il quale «si potrà vedere solo nel medio termine che risultati darà questa politica». L’economista del centro Ref non si dice molto ottimista, perché ritiene che il sistema produttivo italiano sconti diverse difficoltà, e che il costo del lavoro sia solo una di queste. «Ci sono problemi di competitività legati all’arretratezza tecnologica, alla disponibilità di competenze tecniche, ai capitali a cui le imprese possono accedere; per questo motivo, personalmente, avrei puntato maggiormente su provvedimenti tesi a favorire l’innovazione tecnologica e la formazione del capitale umano», spiega De Novellis.

La scelta di campo del governo a favore dei lavoratori e delle imprese non è stata indolore. Come potete vedere dai dati, il gettito delle imposte dirette e indirette è aumentato sia nel 2014 che nel 2015. Quest’anno, poi, le cifre fornite fin qui dal ministero dell’Economia mostrano che la tendenza non si è certamente fermata, anzi: tra gennaio e luglio le imposte dirette sono cresciute di 4,7 miliardi (+3,6 per cento), quelle indirette di 4,1 miliardi (+4 per cento), molto più di quanto sia progredito il Pil nello stesso periodo. Insomma, a dispetto dei tagli alle tasse (o dei benefit fiscali, come si possono considerare gli 80 euro al mese per i redditi più bassi), il fisco non si è mostrato certo tenero. Anzi. Ecco perché le entrate totali dello Stato sono addirittura cresciute e la pressione fiscale continua a essere molto alta. Un dato preoccupante, soprattutto considerando che quei soldi non sono serviti ad alleggerire il macigno del debito pubblico.

Pesa lo scarso impegno nell’affrontare sprechi e privilegi, magari in favore di una spesa pubblica capace di premiare i meritevoli, come spiega Massimo Riva. Ma c’è certamente anche il fatto che, mentre con una mano alleggeriva le tasse che gravano sul lavoro - al fine di sostenere l’occupazione - con l’altra il governo provvedeva a dare copertura ai vari interventi inasprendo diverse voci d’entrata.

Le più rilevanti, sempre guardando le previsioni 2016 rispetto al momento in cui Renzi è entrato in carica: l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (2,9 miliardi), i meccanismi per il recupero dell’Iva, come il “reverse charge” e lo “split payment” (rispettivamente 1,6 miliardi e 988 milioni), il bollo sugli strumenti finanziari (527 milioni), la revisione delle detrazioni d’imposta (553 milioni). Il problema, però, resta lì. Il rottamatore Matteo non è riuscito a demolire i meccanismi che fagocitano una mole ingente di risorse pubbliche. E se ora vuole rilanciare le grandi opere infrastrutturali come il ponte sullo Stretto, a dispetto della dubbia utilità, finora il suo governo non ha toccato gli investimenti pubblici, fermi nel 2015 come nel 2014 a 36 miliardi, due in meno rispetto al 2013 e nove rispetto al 2011.

Dove cova il malcontento
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La politica di Renzi di puntare tutto sul lavoro, racimolando risorse qua e là per non far saltare i saldi di spesa concordati con la Commissione europea, e sfruttando intanto ogni margine di flessibilità per rinviare il pareggio promesso a suo tempo da Mario Monti, ha lasciato peraltro diversi problemi aperti. Basta guardare le cifre spese dal governo in istruzione e in ricerca per capire come scuole e università continuino ad avere risorse davvero risicate, soprattutto se si considera lo sforzo che sta facendo in questo campo la Germania, decisa a demolire la concorrenza industriale in Europa e all’estero. Poi ci sono altre questioni. Una è la sanità, dove i tagli sono finiti e dove le risorse stanziate dal governo, come ha ricordato il premier al San Raffaele, quest’anno sono risalite a quota 112 miliardi. Una cifra, però, che non soddisfa gli addetti ai lavori, visto che prima del suo arrivo a Palazzo Chigi era stato fissato un obiettivo a quota 116 miliardi. Il governo, su questo punto, ha puntato molto sulla spending review grazie al lavoro effettuato dal commissario renziano Yoram Gutgeld, che ora deve superare l’esame dei risultati, per dimostrare che ospedali e strutture sanitarie stanno riuscendo a spendere meglio le risorse disponibili, senza ridurre i servizi.

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Il problema però, è sempre lo stesso. Guardate l’Iva: i meccanismi anti-evasione introdotti dal governo stanno dando qualche risultato. Tuttavia, da una parte, chi paga di più sta via via alzando il rumore delle proteste - perché prima era abituato a farla sempre franca - dall’altra gli addetti ai lavori segnalano che le difficoltà attraversate dall’Agenzia delle Entrate e i ricorsi giudiziari contro alcune delle novità varate dal governo rischiano di imballare presto la macchina della lotta all’evasione, tornando a precipitare l’Italia nel baratro della sua storica ingiustizia fiscale.

La sfida, dunque, è enorme e non bastano le riforme paracadutate dall’alto, per legge. Per seguire la strada indicata da Draghi - spendere meglio quel che si ha - serve poi applicarle, giorno dopo giorno. Facendo, talvolta, la faccia dura con gli elettori.

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