L'anno scorso l'assemblea generale dell'Onu, e quindi anche il nostro paese, si è impegnata per raggiungere entro il 2030 una serie di obiettivi che vanno dalla riduzione della povertà e delle disuguaglianze all'uso virtuoso delle risorse ambientali. Ma mentre altri paesi stano lavorando per raggiungerli, da noi è tutto fermo
Cambiare modello di sviluppo. Orientare consumi, uso delle risorse ambientali, valorizzazione di quelle umane in modo da dare un futuro diverso al pianeta. Per chi ha la memoria corta, solo utopie. Invece è quello che un anno fa ha deciso di impegnarsi a fare entro il 2030 l'Assemblea generale dell'Onu al gran completo, e quindi anche il nostro paese. Ma come capita spesso a obiettivi molto ambiziosi, e che si danno un orizzonte non immediato, poco dopo ce ne siamo dimenticati.
A un anno di distanza dalla firma di quegli impegni,
l'Italia ha la maglia nera: paesi come Germania, Francia, Svizzera, Norvegia, ma anche altri non europei già a luglio hanno presentato il primo rendiconto di quanto fatto, e la strategia per il cammino dei 15 anni concessi per realizzare il cambiamento. Noi no. Tutto tace. Il governo dorme e l'Istat, che dovrebbe elaborare gli indicatori nazionali, pure.
Non dorme però l'Alleanza italiana per lo Sviluppo sostenibile, nata per iniziativa dell'Università di Tor Vergata e dell'Unipol, e che riunisce 126 tra istituzioni e reti della società civile (dall'Accademia dei Georgofili alle tre centrali sindacali, dalla Fondazione Agnelli all'Istituto Luigi Sturzo, dal Volontariato al Wwf), che ha deciso di fare da cane da guardia degli impegni presi e presenta il suo primo Rapporto (oggi alla Camera dei Deputati) sulla posizione dell'Italia in relazione ai 17 obiettivi da raggiungere, attraverso l'azione coordinata su 169 sotto-obiettivi che riguardano tutte le dimensioni della vita umana.
Obiettivi impegnativi, certo: vanno dal porre fine alla povertà nel mondo (è il numero 1), alla cancellazione della fame, dalla salute per tutti all'educazione di qualità, all'uguaglianza, dalla disponibilità di acqua all'accesso all'energia, alla cancellazione delle disuguaglianze, all'uso delle risorse naturali senza distruggerle, tanto per dirne alcune.
Non solo questioni che riguardano l'ambiente in senso stretto (ma devono incorporare anche gli obiettivi decisi a Parigi sull'abbattimento della Co2), ma intendono dare un'altra direzione al progresso, che altrimenti porterebbe il pianeta a squilibri insostenibili e irreversibili.
«È in gioco la stessa sopravvivenza del pianeta, la sua tenuta sociale, civile e democratica», afferma il presidente dell'Asvis (nonché di Unipol) Pierluigi Stefanini. «Una sfida enorme», ammette Enrico Giovannini, portavoce dell'Alleanza, economista, ex presidente dell'Istat ed ex ministro del lavoro, «perché ci si accorge subito che tutto dipende da tutto: tutti i fronti in cui ci si deve muovere sono interconnessi: il problema dei migranti con quello della siccità e con i cambiamenti climatici, la povertà con lo spreco alimentare, il turismo con la qualità del mare...».
Oltre alla maglia nera del ritardo nel darsi una strategia,
l'Italia parte anche in posizione molto arretrata. Secondo l'indicatore elaborato dalla Fondazione Bertelsmann, tra i 34 paesi Ocse l'Italia si colloca al 26mo posto quanto a performance sui target stabiliti (anche se su alcuni indicatori è virtuosa: l'aspettativa di vita in salute, il consumo di materiale, l'efficienza sui consumi di energia). Secondo un'altra valutazione, quella del Sustainable Development Solution Network, in sette casi l'Italia si trova in "zona rossa" (dall'occupazione a pace e giustizia, dalle disuguaglianze al cambiamenti climatici), e in nessun caso in "zona verde", quella in linea con gli obiettivi concordati.
Eppure basterebbe poco per rimettersi in riga: spesso le leggi ci sono, ma non vengono applicate; oppure se ne fanno altre che smontano quelle virtuose. In poche parole:
servirebbe una regia. E siccome l'Asvis si è presa la parte, oltre che del cane da guardia, anche del grillo parlante, nel Rapporto fa delle proposte. Per esempio quella di mettere in capo alla Presidenza del Consiglio l'attuazione dell'agenda 2030, e non come oggi del solo ministero dell'Ambiente. E inserire lo sviluppo sostenibile nella Costituzione: un principio a cui improntare le decisioni future in ogni ambito.
A partire da quelle prese ogni anno nel Documento di economia e finanza, per esempio. E quindi su come ripartire le risorse per far sì che la crescita proceda in una certa direzione. Anche se questo sul breve termine può rappresentare un costo.