Gli arrivi nel nostro Paese aumentano meno rispetto agli altri stati europei. E Roma resta fuori dalla top ten delle mete internazionali più desiderate

Tutti i rapporti più o meno ufficiali sulla dinamica del turismo grondano di entusiasmo e la Federalberghi, l’associazione degli albergatori, emette a cadenza ricorrente bollettini euforici sul numero di italiani in viaggio nei periodi di vacanza e sugli stranieri che pernottano nelle strutture ricettive della Penisola.
Anche se il buonumore degli addetti ai lavori è in parte giustificato dai numeri, basta però allargare lo sguardo a quel che sta accadendo in Europa per porsi qualche interrogativo sulla reale consistenza del decantato boom del turismo.

I dati mostrano che gli arrivi internazionali nel corso del 2017 sono aumentati, in Italia, del 3,5 per cento, meno di quanto sia accaduto in altri Paesi dell’Europa meridionale, come il Portogallo o la Grecia, dove l’incremento è stato superiore al 10 per cento, oppure come la Spagna, dove ha raggiunto un consistente più 9,1 per cento. La stessa media dell’intero continente è ben più elevata rispetto al dato tricolore: più 8,4 per cento, un’accelerazione a ritmi record, mai visti in precedenza, per un totale di 671 milioni di persone che si sono mosse all’interno dell’Europa o sono arrivate da fuori.



L’Italia fa meglio se si considera il secondo indicatore utilizzato nell’ultimo rapporto trimestrale della European Travel Commission, relativo alle notti che i viaggiatori internazionali hanno passato da noi. In questo caso l’aumento è maggiore rispetto a quello degli arrivi: più 6,4 per cento, segno che i turisti che arrivano da oltre confine hanno prolungato il loro soggiorno. Anche in questo caso, però, esistono Paesi che hanno fatto meglio, come Portogallo (+8,5 per cento) e Grecia (+9,6).

L’immagine che si può trarre da questi numeri è simile al finale in volata di una gara ciclistica: ci sono nazioni che scattano davanti a tutti, e si giocano la vittoria, e altre che si fanno risucchiare nel gruppo, accontentandosi di giungere al traguardo senza accusare distacchi clamorosi. L’Italia sembra essere fra queste. Perché? La domanda ha molte risposte, che dipendono in parte dal contesto generale. Il turismo europeo ha ottimi numeri per ragioni che in parte non dipendono da meriti propri. Fra queste, vanno sicuramente considerate la generale crescita economica del continente, la fuga di molti turisti da destinazioni quali, ad esempio, l’intera sponda sud del Mediterraneo, nonché lo sviluppo di Paesi estremamente popolosi come la Cina e l’India, dai quali si mette in viaggio verso le capitali europee un flusso di visitatori crescente. Si spiega così l’incremento record dell’Europa intera, dove gli arrivi internazionali hanno registrato nel 2017 un unico segno negativo, quello della Norvegia.

Il rapporto della European Travel Commission, un’organizzazione che raccoglie gli enti di promozione turistica di 32 Paesi europei, punta però il dito su un fattore importante. Le destinazioni che hanno fatto meglio, l’anno scorso e in generale nel periodo post-crisi, sono quelle che hanno programmato investimenti più efficaci e che sono riuscite, in particolare, a migliorare il network dei collegamenti aerei. Si spiegano così, ad esempio, le accelerazioni viste in questi anni sia da Paesi già originariamente più visitatati dell’Italia, come la Spagna (ha superato gli 80 milioni di arrivi internazionali, contro i 54 milioni giunti da noi), sia da altri che si muovevano da posizioni più distanti, come ad esempio la Croazia (è arrivata a sfiorare i 16 milioni, dai nove del 2010).

La mancanza di strategie nazionali adeguate è proprio uno degli aspetti più critici, per quel che riguarda l’Italia. Josep Ejarque, un esperto di turismo internazionale che, dopo alcuni anni di esperienza a Barcellona e in altre città spagnole, si è trasferito a Torino nel 1999 e ha lavorato inizialmente al rilancio della città come destinazione capace di attrarre nuovi visitatori da fuori, per poi dedicarsi ad altri territori, sostiene che le istituzioni italiane vivono l’andamento del settore con un «ingiustificato senso di appagamento. La crescita dei flussi di viaggiatori», spiega, «non è infatti il frutto delle attività messe in campo come sistema-Italia e per questo è nettamente al di sotto delle performance realizzate da nostri concorrenti, con il risultato che noi perdiamo progressivamente quote di mercato internazionale».

Sorprendentemente, nel caso del turismo il problema non riguarda i soldi a disposizione per fare investimenti, che sulla carta ammontano a circa un miliardo di euro l’anno. La questione è, piuttosto, come questi quattrini vengono spesi. La riforma costituzionale del 2001 ha affidato alla Regioni la competenza esclusiva sulla promozione turistica, con effetti discutibili: in assenza di chiari principi regolatori a livello centrale, le 19 Regioni e le due province autonome di Trento e Bolzano si sono mosse ognuna per conto proprio. Poche sono state in grado di vendersi in modo efficace; ogni territorio ha cercato una propria strada - spesso improvvisando - per posizionarsi sui diversi mercati da dove giungono i flussi di visitatori. Nel caos che ne è seguito ci ha perso il sistema in generale, e la capacità competitiva sui mercati mondiali.

Proprio per ovviare a queste difficoltà, negli ultimi anni sono state tentate diverse riforme, con risultati spesso deludenti. Un caso simbolo è quello dell’Enit, l’ente nazionale per la promozione turistica, che il governo di Matteo Renzi ha deciso di affidare nel giugno 2016 a Evelina Christillin, una manager torinese che aveva lavorato alle Olimpiadi invernali del 2006 e che presiede, tra l’altro, la Fondazione del Museo Egizio. A quasi tre anni dal suo varo la riforma dell’Enit è rimasta sulla carta, nonostante il governo abbia assegnato una dotazione di 84 milioni di euro per il triennio 2016-2018. Dopo la trasformazione in ente pubblico economico, la grandissima parte degli ex dipendenti è fuggita e a oggi operano nella sede centrale a Roma soltanto 24 dipendenti, su una dotazione organica prevista di 80 posti. La procedura di selezione per 21 profili aperta nell’autunno 2016 non è ancora stata chiusa e molti dei progetti annunciati sono incompiuti, come l’ennesimo rifacimento del sito web Italia.it, per il quale erano stati stanziati 4,3 milioni di euro, la creazione di un hub nazionale per l’innovazione digitale nel turismo, la realizzazione di un piano di social media marketing. Le sedi estere, prive da più di due anni di un responsabile, sono in stato di abbandono.

In questa situazione di stallo, alcune funzioni dell’Enit sono state direttamente prese in carico dal Ministero dei Beni culturali o affidate ad altri attori: l’ultimo esempio è rappresentato dall’assegnazione di un contributo di mezzo milione di euro da parte del ministero guidato da Franceschini alla Commissione speciale turismo della Conferenza delle Regioni e Province autonome, per mettere in campo attività di progettazione di una piattaforma digitale e di valorizzazione del turismo enogastonomico e montano. Attività, queste, che avrebbe dovuto svolgere l’ente che esiste appunto per quello, e cioè l’Enit.Il quale, così, si è reso protagonista di iniziative che suonano come minimo estemporanee, come il tour denominato #saliaborgo, nel quale gli stessi dirigenti si sono prestati a fare da testimonial di un giro in motocicletta in alcune aree del Centro Italia, raccontando il viaggio attraverso i loro account social.

Il limbo nel quale è finito l’Enit è solo uno dei tanti esempi di insuccesso, fra i quali va certamente inserita anche la “Scuola dei beni e delle attività culturali e del turismo” di Lucca, patrocinata ancora dal Ministero dei Beni culturali, nata nel 2012 grazie ad un articolo ad hoc infilato nelle “misure urgenti per la crescita del Paese” varate dall’allora governo di Mario Monti, finanziata con svariati milioni di euro e, di fatto, mai diventata operativa. Più di altri, tuttavia, non si possono però non citare i piani di sviluppo firmati dai vari ministri che si sono susseguiti.

Proprio nel 2013, quando il professor Monti stava per terminare la sua esperienza da premier, l’allora ministro del Turismo Piero Gnudi varò un ambizioso piano strategico “Turismo 2020”, di cui da allora nessuno ha praticamente mai più parlato. Nel 2014 toccò a Dario Franceschini produrre un piano per la digitalizzazione del settore, seguito nel febbraio di un anno fa dal “Piano strategico del turismo 2017-2022”. L’obiettivo: delineare lo sviluppo del settore nei prossimi anni per rilanciare la leadership italiana sul mercato turistico mondiale. Appaltato per più di 4 milioni di euro alla società pubblica Invitalia, anche questo programma non ha però evitato le critiche: non indica alcun obiettivo numerico ed economico da perseguire, e finora non ha avuto significative traduzioni attuative.

In questo quadro, dunque, non stupisce il fatto che l’Italia sia riuscita ad accodarsi al boom europeo, senza però cavalcarlo da protagonista. Va detto che, anche nel caso del turismo, la situazione varia moltissimo da regione a regione, a volte anche da località a località. Perché ci sono territori che lavorano bene da tempo. Tra i casi più noti ci sono il Trentino e l’Alto Adige, che ormai da anni stanno puntando con decisione sulla destagionalizzazione e sui turisti disposti a spendere di più, con risultati molto favorevoli in termini di presenze internazionali.

Un altro esempio è quello della Puglia, che sta ancora godendo degli investimenti fatti negli anni passati, oppure la Sardegna, che di recente ha varato una nuova legge regionale nel tentativo di creare nuovi prodotti turistici capaci di attrarre persone anche al di fuori della già frequentatissima stagione estiva. Anche qui, però, si tratta sempre di iniziative che andrebbero sostenute in maniera più continua a livello di governo.

Perché i limiti restano moltissimi, come mostra il caso della Sicilia, che vanta un decimo dei collegamenti aerei low cost con la Germania rispetto alle Baleari, che la battono sonoramente in termini di arrivi di turisti internazionali: sono 2,1 milioni nell’isola italiana, rispetto agli oltre 13 milioni dell’arcipelago spagnolo.
Paradossi di una terra come l’Italia, che rispetto alle altre destinazioni più frequentate d’Europa potrebbe attrarre visitatori tutto l’anno, grazie al suo sconfinato patrimonio artistico. Un patrimonio spesso non valorizzato abbastanza, quando non abbandonato a se stesso, come ricorda a tutti noi la “Lista rossa” dei luoghi storici a rischio compilata qualche tempo fa dall’associazione Italia Nostra. Antichi borghi, castelli, siti archeologici lasciati all’incuria, e che richiamerebbero viaggiatori da mezzo mondo, se soltanto si trovassero altrove.