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Almeno un fatto però sembra certo fin d’ora. Quando sarà finalmente possibile tornare alla normalità, non tutti i Paesi si troveranno sulla stessa linea di partenza. A fare la differenza saranno le condizioni del bilancio pubblico di ciascuno Stato. In altre parole, la zavorra del debito accumulato negli anni passati non potrà che condizionare pesantemente la velocità e la natura degli interventi per rilanciare l’economia. Questa situazione è alla base dello scontro interno all’Unione Europea. Alcuni governi, quello tedesco, austriaco e olandese in prima linea, sono convinti di poter finanziare la ricostruzione in proprio e non vogliono condividere con altri membri dell’Unione i costi di un piano su scala continentale. L’Italia invece, così come Francia e Spagna, viaggiava in riserva già prima dell’emergenza Covid. È quindi inevitabile che per questi Paesi le nuove ingenti spese per il rilancio economico destinate finiranno per sommarsi al già enorme debito pubblico nazionale. Va ricordato che le misure già annunciate dal governo per i soli mesi di marzo e aprile costeranno almeno 50 miliardi di euro, circa il tre per cento del Pil. E siamo solo all’inizio.
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Per capire la portata della sfida che dovrà affrontare il nostro Paese conviene partire dai numeri. A gennaio, in base all’ultima rilevazione della Banca d’Italia, il debito pubblico nazionale ammonta in valori assoluti a 2.443 miliardi di euro, una somma superiore ai 2.420 miliardi di un anno prima e anche ai 2.350 miliardi di gennaio 2018. A partire dalla crisi finanziaria internazionale del 2008 non ha mai smesso di crescere neppure il dato del debito in rapporto al Pil. Oggi siamo intorno al 134 per cento. Dieci anni fa il governo di Roma doveva già gestire una colossale montagna di pagherò, pari all’epoca a circa il 110 per cento del prodotto interno lordo. Per fare un confronto, la Germania si trova intorno a quota 60 per cento, mentre l’Olanda è poco sotto questo livello. In Francia invece l’indebitamento statale ha superato il Pil (100,4 per cento) già a fine 2019 e anche la Spagna è ormai molto vicina a varcare quota 100 per cento. Il disastro Coronavirus cambierà di molto questi numeri, ma, come detto, per l’Italia le difficoltà a gestire i nuovi oneri sul bilancio non potranno che rivelarsi maggiori rispetto ai Paesi cosiddetti virtuosi del Nord Europa, quelli che in queste settimane si sono messi di traverso rispetto a qualunque ipotesi di condivisione dei costi della ricostruzione.
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È difficile ipotizzare adesso quale sarà l’impatto della pandemia sui conti pubblici. Sono troppe le variabili ancora incerte perché gli istituti di ricerca si spingano a disegnare scenari con numeri precisi. La dimensione dell’urgano finanziario che ci attende è però già stata evocata dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi nel suo intervento sul Financial Times di martedì 25 marzo. «Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato», ha scritto Draghi. In altre parole, secondo l’ex banchiere centrale di Francoforte, i governi dovranno garantire la solvibilità di banche e aziende investite dalla più grande crisi economica dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Quanto costerà questa gigantesca manovra di salvataggio? Gli analisti interrogati da L’Espresso, pur tra molte cautele, ritengono probabile che nell’arco dei prossimi dodici mesi il rapporto tra debito e Pil possa crescere tra i 15 e i 20 punti percentuali, portandosi quindi intorno a 150. Questo numero è il risultato non solo del prevedibile incremento della spesa pubblica, ma anche della diminuzione del prodotto interno, che impiegherà molti mesi per tornare al livello di partenza dopo lo stop ordinato tre settimane fa dal governo a oltre la metà delle aziende del nostro Paese. Il sistema Italia sarà in grado di sostenere i costi di un debito pari a una volta e mezza il proprio “fatturato” nazionale? È questo l’interrogativo fondamentale per i mercati, cioè per il complesso degli investitori che saranno chiamati a sottoscrivere i titoli di stato tricolori. In ultima analisi, il fattore decisivo per le quotazioni dei nostri Btp sarà la fiducia nella capacità del governo nel tenere sotto controllo il deficit di bilancio durante la ricostruzione post virus. Se cresce il rischio percepito di una possibile insolvenza, allora aumentano anche gli interessi che il Tesoro di Roma deve pagare per convincere gli operatori finanziari a comprare i titoli targati Italia. Costi maggiori sul debito alimentano la sfiducia dei mercati e quindi un nuovo incremento della spesa del Tesoro per remunerare i sottoscrittori dei titoli. Si innesca così una spirale perversa che può portare alla bancarotta. Lo scenario da evitare a tutti i costi è la replica di quanto accaduto tra l’estate e l’autunno del 2011, quando la fuga in massa degli investitori che speculavano sul naufragio dei conti pubblici italiani innescò l’impennata dello spread, e di conseguenza anche del costo del nostro debito. All’epoca fu l’intervento della Banca centrale europea a riportare sotto controllo la situazione con il famoso “whatever it takes” (faremo tutto quello che sarà necessario) pronunciato da Draghi che diede il via al quantitative easing, cioè all’acquisto di titoli pubblici sul mercato. La manovra della Bce provocò un calo dei tassi ed ebbe quindi l’effetto di rendere molto più sostenibile il costo del debito. L’Italia che nel 2012 spese in interessi oltre 80 milioni ha visto calare negli anni successivi di quasi un quarto questa voce del proprio bilancio.
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La storia si ripete in questi giorni. Dopo molte esitazioni, Christine Lagarde, che ha preso il posto di Draghi al vertice dell’istituto di Francoforte, ha infine dato via libera a un complesso di interventi che entro la fine dell’anno potrebbero arrivare a riversare qualcosa come 1.200 miliardi di euro sui mercati finanziari, una massa gigantesca di denaro destinato all’acquisito di titoli pubblico e anche di obbligazioni di aziende private. In pratica la Bce taglierà le gambe alla speculazione ritirando enormi quantità di titoli dal mercato, come è già successo tra il 2012 e la fine del 2018, quando il quantitative easing venne infine sospeso per poi ripartire a settembre dell’anno scorso. Per avere un’idea delle dimensioni della manovra basti pensare che il bilancio della Banca centrale è passato da un valore dell’attivo pari a 256 miliardi del 2015 ai 457 miliardi di fine 2019.
I primi effetti dell’intervento annunciato da Lagarde si sono già fatti sentire sui mercati finanziari. Lo spread che tra il 10 e il 20 marzo aveva oscillato tra i 250 e un massimo di 320 punti nei giorni successivi ha poi velocemente ripiegato verso quota 200. Questo significa che nei prossimi mesi, a meno di sconvolgimenti al momento imprevedibili, «il Tesoro italiano potrà collocare sul mercato titoli con redimenti non superiori all’uno per cento per scadenze fino a dieci anni», riassume Marco Onado, professore all’Università Bocconi. Nelle aste di gennaio e febbraio, le ultime prima dell’esplosione della pandemia, il Btp con scadenza decennale è stato offerto agli investitori con un interesse dell’uno per cento. Secondo Onado, «l’intervento della Bce permette all’Italia di guadagnare tempo». In altre parole, Roma potrà continuare a finanziarsi a basso costo nei mesi più duri dell’emergenza e quindi affrontare con meno ansia la fase della ricostruzione.
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In tempi normali, un simile afflusso di liquidità, di moneta sonante creata grazie agli acquisti di titoli della banca centrale, finirebbe per alimentare l’inflazione. «Ma non succederà», afferma Massimo Bordignon, professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università Cattolica di Milano. La scommessa è che lo stimolo monetario della Bce riesca a sostenere la ricostruzione senza provocare un aumento generalizzato dei prezzi. «Nei prossimi mesi - spiega Bordignon - l’economia globale si troverà ad affrontare una recessione che sarà il risultato allo stesso tempo di un crollo della domanda e anche dell’offerta». Insomma, il grande inverno innescato dalla pandemia finirà per congelare, almeno nel breve periodo, il motore della crescita e con questo anche una possibile fiammata inflazionistica. A lungo andare, però, la rete di protezione della banca centrale non sarà più sufficiente. L’Italia, così come gli altri Paesi con alto debito pubblico, dovranno trovare il modo di finanziare la ricostruzione senza spazzare via il castello di carte dei conti pubblici. Andrea Roventini, professore associato di economia alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, paragona la manovra dell’istituto di Francoforte «al metadone, a un calmante che attutisce la sensazione del dolore, ma non é la soluzione del problema». Anche perché gli acquisti di titoli di stato da parte della Bce non potranno continuare all’infinito. In prospettiva, l’Italia rischia di trovarsi sospesa tra il crack finanziario e la depressione economica.
Come se ne esce? L’ipotesi di rastrellare risorse aumentando il già molto elevato carico fiscale sugli italiani non è al momento presa in considerazione, anche perché le tasse supplementari potrebbero finire per ostacolare la ripresa economica. Roventini, come molti altri economisti, preme per una soluzione in sede europea, i cosiddetti coronabond. «Ovvero - spiega Roventini - dei titoli emessi e collocati con la garanzia di tutti i Paesi dell’area euro in proporzione del loro Pil». L’Italia avrebbe il vantaggio di pagare interessi inferiori rispetto a quelli dei propri Btp. Una variazione sul tema sarebbe la soluzione studiata dagli economisti Francesco Giavazzi e Guido Tabellini, che propongono l’emissione di bond perpetui o a lunghissima scadenza. Il rimborso del capitale sarebbe così escluso oppure rimandato molto in là nel tempo, 50 o addirittura 100 anni dopo il collocamento. Resterebbero da pagare gli interessi, che però in caso di garanzia fornita in modo congiunto da tutti i membri Ue, sarebbero molto bassi. Un accordo in materia, però, ancora non c’è. Eppure mai come ora, sull’orlo di una depressione economica senza precedenti, l’Europa non può permettersi di perdere tempo. L’orologio della storia corre veloce. E quello del debito, per Paesi come l’Italia, forse anche di più.