Meetà del tempo lavorativo da casa, metà in ufficio. Anche al di là della pandemia. Parla Roberta Turi, segretaria generale della Fiom Cgil di Milano
di Gloria Riva
Roberta Turi, segretaria generale della Fiom Cgil di Milano, come si stanno attrezzando le imprese per affrontare l'autunno e quindi l'atteso ritorno alla normalità?
«Decine di aziende stanno avviando trattative con il sindacato per stipulare accordi collettivi che regolamentano l'uso dello smartworking, strumento che intendono continuare a utilizzare al di là della pandemia. Si va verso un modello ibrido, in base al quale metà del tempo verrà trascorso in ufficio, il resto da remoto. Non per tutte la soluzione è quella del “lavoro da casa”. Alcune società stanno infatti sperimentando nuove soluzioni, come la condivisione degli spazi con altre big corporate per ridurre la disuguaglianza rispetto a quei dipendenti che vivono a parecchi chilometri di distanza dalla sede lavorativa o non hanno sufficiente spazio per la scrivania in casa. È quello che stanno sperimentando 32 grandi imprese con il progetto Smart Alliance, che prevede la possibilità per i dipendenti di ciascuna azienda, di poter occupare una postazione negli ufficio delle restanti 31 aziende. Molte altre realtà industriali – specialmente le più piccole - hanno invece deciso di chiudere l'esperienza dello smartworking e tornare in presenza».
Cosa sta facendo il sindacato?
«Stiamo avviando svariate trattative aziendali per regolare l'utilizzo dello smartworking, ma anche per rispondere ai veloci cambiamenti che stanno avvenendo nel mercato del lavoro in questi mesi. Specialmente per il lavoro da remoto è indispensabile trovare accordi con le aziende perché abbiamo constatato che i dipendenti dichiarano di lavorare in media due ore in più al giorno, senza essere adeguatamente retribuiti per questo. Questo è uno degli aspetti che emerge della ricerca effettuata dalla Fiom di Milano ed elaborata dalla Fondazione Sabbatini, su un panel di 20 grandi imprese del settore dell'Information Communication Technology, che ha coinvolto 3.152 dipendenti».
Quali le sfide maggiori che il sindacato si trova ad affrontare in queste contrattazioni aziendali?
«Un primo tema è riuscire a trovare una mediazione fra un modello tradizionale di remunerazione in base al tempo dedicato al lavoro e una nuova modalità, che si basa sugli obiettivi raggiunti. Qui, il problema, sta proprio nella definizione di questi obiettivi, che spesso vengono definiti dall'azienda, senza coinvolgere i dipendenti, e sono eccessivamente stringenti rispetto al carico di lavoro effettivo. Dunque, se da un lato i lavoratori sono entusiasti di poter operare con maggiore autonomia, nei fatti questa indipendenza viene bloccata dall'univocità delle decisioni che vengono prese solo dai datori di lavoro. E tutto questo si traduce in un elevato numero di ore extra lavorative dedicate proprio alla chiusura dei progetti. L'altra sfida che il sindacato si trova ad affrontare è riuscire a rappresentare i lavoratori che non hanno più un momento di incontro in azienda, ma operano da lavoro, favorendo quindi il livello di individualismo. Stiamo sperimentando forme di assemblee virtuali, ma è davvero difficile capire quali sono le esigenze dei lavoratori se si perde il contatto diretto con loro. Nelle aziende tutto sta cambiando velocemente, e di pari passo anche il sindacato deve riuscire a innovarsi per stare al passo con questi radicali mutamenti».