Era un venerdì, il 21 febbraio 2020. Di quella giornata ognuno di noi ricorda tutto: gli italiani che vivevano lontano dalle zone interessate e ancora di più quelli coinvolti direttamente. Le notizie sempre più allarmanti in arrivo da un paese sconosciuto ai più, Codogno, in provincia di Lodi. Il primo morto nella notte, a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova. L’ansia. L’angoscia. La paura. Le prime chiusure, la zona rossa, le quarantene, il contagio. Il covid che è entrato ufficialmente nelle nostre vite, per non uscirne più. Abbiamo capito poi che la pandemia era arrivata in Italia già da tempo e stava seminando vittime a Nembro, a Alzano Lombardo, nella Valle Seriana. Ma tutto è cominciato da lì: i quasi tre milioni di contagiati, gli oltre 95mila morti, un tragico primato europeo.
Da qui, da quel giorno, da un omaggio ai morti e a chi soffre per la crisi economica, è partito il primo discorso di fronte al Senato del nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi. Tra i pochissimi leader europei, all’epoca, ad aver capito la portata di quanto stava accadendo, con l’articolo sul Financial Times che aspiranti ministri e sottosegretari hanno imparato a memoria nelle ultime due settimane, non si sa mai.
La pandemia che impone un cambio di mentalità, qualcosa di più di un semplice cambio di governo, soprattutto in Italia. Non si può in nessun modo stabilire un rapporto di causa-effetto tra i due eventi, uno epocale, l’altro per ora minore e confinato nel Palazzo, ma chi si risvegliasse oggi da un lungo sonno durato un anno troverebbe un panorama politico interamente cambiato.
Negli Stati Uniti non governa più Donald Trump: al suo posto c’è il presidente democratico Joe Biden che, da ultimo, ha fatto sapere che per le relazioni con l’Arabia parlerà con il re Salman ed escluderà il principe ereditario Mohammed bin Salman (capito Matteo Renzi?). In Europa non c’è più il patto di stabilità, per ora sospeso: al suo posto il piano Next Generation Eu, con la sua pioggia di miliardi per fronteggiare non solo l’emergenza sanitaria ma anche la necessità di innovazione sulla transizione ecologica e sulla digitalizzazione dei paesi dell’Unione. E in Italia è entrato in carica il governo di Mario Draghi, l’ex banchiere centrale europeo, con il voto non solo dei partiti inseriti negli schieramenti tradizionalmente europeisti come il Pd e Forza Italia, ma anche di Lega e di Movimento 5 Stelle, che nel percorso di avvicinamento al potere avevano proclamato di voler uscire dall’euro, sottoporre l’Unione a referendum, ristabilire i confini nazionali, fino a fare un governo insieme con simili fondamenti.
Nessun processo è separato dall’altro, soprattutto in epoca di pandemia. Ma c’è un di più che riguarda l’Italia. A vederla in positivo, in questi tre anni il sistema è riuscito a inglobare le forze anti-sistema e a difendere le istituzioni repubblicane dall’assalto. Al tempo stesso, pezzi crescenti di establishment italiano e europeo hanno compreso che non si possono fare le riforme senza il consenso dei popoli o addirittura contro i popoli: senza dialogo sociale, come dice la ministra spagnola della Transizione ecologica Teresa Ribera, socialista, intervistata da Federica Bianchi insieme all’omologa francese Barbara Pompili.
Succede quanto disse Aldo Moro nel 1977 a Benevento a proposito dell’alleanza che si stava costruendo tra gli storici partiti nemici della guerra fredda, la Dc e il Pci (Marco Follini ha giustamente chiesto una moratoria di citazioni di Moro, perdoni lo strappo): «Quello che voi siete noi abbiamo contribuito a farvi essere e quello che noi siamo voi avete aiutato a farci essere. Non è mancata in questi anni una reciproca influenza tra le forze e quale che sia la posizione nella quale ci si confronta qualche cosa rimane di noi negli altri e degli altri in noi». E non è un caso che il regista discreto e quasi invisibile di questa opera di inclusione sia il moroteo che ha cominciato il suo ultimo anno al Quirinale.
Quando si riscriverà la storia di questo periodo bisognerà lavorare sul ruolo silenzioso e tenace di Sergio Mattarella. E tra i momenti chiave di questa azione bisognerà inserire anche la difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della Banca d’Italia, messa sotto attacco non dalla Lega o dal Movimento 5 Stelle, ma da quel Renzi che oggi si prende il merito di aver portato Draghi a Palazzo Chigi.
Successe quando i renziani provarono a evitare la riconferma di Ignazio Visco a governatore di via Nazionale. In quel momento, autunno 2017, Renzi era ancora segretario del Pd e Paolo Gentiloni, il presidente del Consiglio del Pd (e non più renziano), disse di no e riconfermò Visco d’accordo con Mattarella, subendo la diserzione dal Consiglio di quattro ministri renziani e della sottosegretaria Maria Elena Boschi. A Palazzo Chigi a fronteggiarli c’era anche il capo staff di Gentiloni Antonio Funiciello che oggi è il capo di gabinetto di Draghi, attaccato per paradosso come renziano dai vedovi del governo Conte. Stessa difesa arrivò quando nel mirino finirono i tecnici di via XX Settembre, da parte dei gialloverdi e del grande comunicatore Rocco Casalino, all’epoca servilmente omaggiato e ora vilmente dileggiato: tra loro, Roberto Garofoli e Daniele Franco. Oggi sono gli uomini-chiave del governo Draghi.
A rileggere questa storia c’è da essere meno ottimisti. A dispetto degli insulti delle rispettive bande sui social e dei loro mazzieri sui quotidiani di riferimento, la considerazione che i leader di ultima generazione hanno per i servitori dello Stato e le istituzioni indipendenti, compresa la stampa, è identica: nessuna. Con simili sostenitori nella maggioranza, la partita è ancora aperta, anche se Mattarella ha messo in salvo il Paese. Nonostante lo sfascio che ha investito altre istituzioni fondamentali, come la magistratura ritratta nel suo libro dall’ex capo del sistema correntizio delle toghe Luca Palamara. La partita si gioca sulla capacità di manovra di Draghi e sulla sua durata, punto cui il premier ha dedicato un significativo anche se criptico passaggio del suo primo intervento: «La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici della vita della nazione, di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo». Una massima di sapienza orientale, o gesuitica, forse dedicata agli sforzi (vani) del predecessore Conte di restare a Palazzo Chigi a ogni costo, che segnala con disincanto la consapevolezza di Draghi che il tempo del governo è breve e che le divisioni riprenderanno presto. E dunque bisogna agire subito.
Un tempo breve perché nel 2022 si vota per il Quirinale. E se fosse Draghi a sostituire Mattarella senza passaggi intermedi sarebbe una riforma costituzionale di fatto, una sorta di presidenzialismo dolce. Ma non c’è nulla di dolce, e neppure di scontato, in questo crinale. Se il Paese non fosse profondamente lacerato e diviso non ci sarebbe questa richiesta di unità. E non si è fermata l’onda lunga dell’angoscia cominciata un anno fa: prosegue nel dolore delle morti, nella sofferenza delle disuguaglianze che si sono allargate fino ad arrivare agli inclusi, nella preoccupazioni per i virus che variano e corrono più veloci delle vaccinazioni. Che prezzo saranno disposti a pagare i partiti per la Tregua, per sostenere il «governo del Paese senza aggettivi», come l’ha definito Draghi?
Anni fa il filosofo Remo Bodei dedicò un libro (“Il Noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana”, Einaudi, 1996) ai colori delle passioni politiche e sociali nella storia del dopoguerra. Le passioni rosse che caratterizzarono nel Novecento il movimento operaio, i socialisti e i comunisti, le passioni bianche dei cattolici organizzati nella Dc e nella società, le passioni nere dei nostalgici del fascismo. Cui si aggiunsero, dopo il 1994, le passioni verdi della Lega Nord, all’epoca guidata da Umberto Bossi e secessionista, e l’azzurro di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi. E, più recentemente, il giallo delle stelle del Movimento. Accanto a queste Bodei individuava un robusto, e più nascosto, filone di passioni grigie. Le definiva minoritarie, ma non meno resistenti delle altre. «Si presentano grigie e impiegatizie, modeste e di routine soltanto a coloro che considerano la democrazia un regime orientato dai gusti volgari e dalle opinioni superficiali delle folle o retto da potenti lobbies che manipolano spregiudicatamente il consenso. Passioni civili non militarizzate e scarsamente mobilitabili a livello di massa, giacché vivono lontane dalla demagogia». Le passioni degli uomini dello Stato, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, o Rosario Livatino. Le passioni degli eroi borghesi come Giorgio Ambrosoli, che prima di essere ucciso nel 1979 dalla mafia alleata con la cattiva politica scrisse alla moglie Annalori che «a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito». E chiedeva ai suoi figli di avere «coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa».
Era monarchico, Ambrosoli, addirittura un monarchico militante. Ma sarebbe difficile ritrovare, in tempi recenti, un documento così rappresentativo di quello che si definisce, spesso in modo retorico, spirito repubblicano. Draghi si è affidato a questo spirito, quasi una preghiera laica, nel giorno in cui i cattolici celebrano il giorno delle ceneri e l’inizio della Quaresima, nel Parlamento ridotto a suq a cielo aperto nelle settimane passate. Uno spirito che non deprima le differenze, che non appiattisca le identità, ma che le esalti: la sinistra, la destra, quel che resterà dei Cinque Stelle. Hanno un tempo (breve) per ricostruirsi. La Nuova Ricostruzione serve anche a questo: a restituire senso ai partiti che hanno fatto un passo in avanti per non precipitare nel burrone, che hanno trasformato una crisi di governo in una crisi di sistema. Ma questo, sinceramente, non può spettare soltanto a Draghi.