Editoriale
Dal voto nelle regioni, più ancora che dalle primarie, dipenderà il futuro della sinistra in difficoltà
di Alessandro Mauro Rossi
Domenica circa 12 milioni di cittadini in Lazio e Lombardia avranno la facoltà di votare per le elezioni regionali: chissà quanti poi lasceranno davvero cadere la scheda nell’urna. La volta precedente furono circa due terzi (8 milioni) e probabilmente anche il 12 e 13 febbraio il calcolo dei votanti non si discosterà molto da queste cifre. In Lombardia ci sono sei candidati, nel Lazio quattro. Ma l’attenzione è concentrata sui due rappresentati di punta della destra e sui due della sinistra, gli altri fanno volume: Attilio Fontana e Pierfrancesco Majorino in Lombardia, Francesco Rocca e Alessio D’Amato nel Lazio. L’esito sembra scontato a vantaggio del centrodestra. Un miracolo che inverta i pronostici ci può sempre stare. Ma, appunto, un miracolo.
Il test è interessante soprattutto per capire cosa accadrà dopo. In Lazio e Lombardia si presentano due offerte molto diverse: al Nord una coalizione guidata da Majorino che comprende oltre al Pd e ad altri satelliti, il Movimento 5 Stelle; al Centro il Pd corre alleato di Matteo Renzi e Carlo Calenda. Come dire: un centrosinistra-sinistra e un centrosinistra-destra. Gli esiti elettorali, di conseguenza, potrebbero avere ripercussioni anche sul congresso del Pd che dovrà scegliere tra Stefano Bonaccini (più vicino alla lista laziale) e Elly Schlein (più organica a quella lombarda). Ma potrebbero averne anche sul centrodestra se, come pare, la Lega e Forza Italia perderanno voti a vantaggio di FdI.
C’è da capire come sarà il centrosinistra che uscirà dalle elezioni regionali e poi dal congresso del Pd: da una parte c’è una proposta che ricorda l’esperienza renziana, dall’altra manca lo spazio perché già in gran parte occupato dal Movimento 5 Stelle degrillizzato. Comunque vada e da qualunque parte si appoggi il Pd, gli mancherà sempre un pezzo per un’alleanza in grado di contendere almeno numericamente il governo alla destra. Carlo Calenda e Giuseppe Conte non potranno mai stare assieme a Bonaccini o Schlein, non sono il Vinavil della politica che tiene insieme i cocci.
Il problema è che a sinistra la musica è cambiata: l’evanescenza del Pd non è solo nei numeri ma nella mancanza di una proposta politica netta. Ormai ci si aggrega sempre di più sulle cose: contro un inceneritore o una discarica, a favore di un’area verde, di una scuola o di un asilo. La destra si ritrova in parole d’ordine semplici come Dio, patria e famiglia che però non sono da conquistare, al massimo da difendere, non incidono sulla carne viva del Paese. La sinistra invece ha fatto scelte più complesse e coraggiose come quelle dei diritti civili, ma se non si ha la pancia piena hanno più presa i diritti sociali: il lavoro, il salario minimo, gli asili nido. Sia i diritti civili sia quelli sociali incidono eccome sulla vita di tutti i giorni, anche al limite della sopravvivenza. Per questo c’è bisogno di un progetto politico che non conti le tessere ma parli al Paese, alla gente disillusa ma pronta a tornare ad essere protagonista: non per le parole ma per le cose.
Non aiutano le performance amministrative non brillantissime dei due sindaci delle capitali d’Italia, Roma e Milano, come racconta la nostra storia di copertina. Non aiuta nemmeno la lontananza del governo dagli enti locali su cui riversa sempre meno risorse. Eppure la sinistra ha dalla sua una storia di buongoverno delle città. Se si ammacca anche quello cosa rimane?