Il proclamato amore del leader francese per l’Unione si è dissolto alle prime prove.  Torna a prevalere  il sogno  fuori tempo della “grandeur”

macron-jpg
Nemmeno il Macron eversore del sistema dei partiti, il presidente-ragazzino della rottura, l’innovatore a suo modo rivoluzionario, lo Jupiter che tutto può, ha saputo resistere al richiamo antico della grandeur francese: un virus che coglie tutti gli inquilini dell’Eliseo. Così si è messo l’elmetto ed è partito all’inseguimento di Donald Trump nella punizione della Siria di Bashar Assad. In nome della “France puissance”, la Francia potenza, e con l’intento di guadagnare influenza in un’area storicamente cara al suo Paese (basti ricordare il ruolo del diplomatico François Georges Picot nel definire i confini del Medio Oriente dopo la Prima guerra mondiale).

Siccome la grandeur, nei moderni rapporti di forza, è più supposta che reale, Emmanuel Macron è riuscito però in pochi giorni a collezionare più gaffe che durante l’intero suo mandato (a breve sarà un anno). È stato smentito dall’amministrazione americana quando ha sostenuto che, grazie alla sua opera di convincimento, i soldati Usa resteranno in Siria a lungo. Niente da fare, torneranno a casa molto presto, ha risposto Washington. Si è vantato di aver provocato, con i bombardamenti, la rottura dell’asse tra lo zar del Cremlino Putin e il sultano di Ankara Erdogan, salvo provocare la stizzita reazione di entrambi: niente di vero. In diretta tv è stato messo all’angolo quando ha affermato di avere le prove dell’uso di armi chimiche nella Ghuta da parte del regime di Damasco. Gli hanno chiesto di mostrarle, lui ha balbettato: «Non posso, sono legato a un segreto». Motivo: il dossier d’accusa non è suo, ma di altri. Dove gli altri sono ovviamente gli Stati Uniti. Notevole dimostrazione di fiducia verso un Paese che aveva truffato il pianeta 15 anni fa, quando Colin Powell mostrò al Consiglio di sicurezza dell’Onu una boccetta di antrace per esemplificare la pericolosità delle armi batteriologiche in mano a Saddam Hussein e giustificare la guerra a Baghdad. A opporsi col maggior vigore fu proprio un francese, Dominique de Villepin, all’epoca ministro degli Esteri. La guerra ci fu, delle armi chimiche o batteriologiche, nemmeno l’ombra. Da allora le “prove” sembra al minimo educato esibirle prima di procedere coi missili.

La sua parola d’ordine, in diplomazia, è “tenere aperto il dialogo con tutti”. Dunque mantenere buoni rapporti con i principali attori internazionali, perché Parigi sia punto d’equilibrio e nodo nevralgico delle relazioni. Lodevole intento, un po’ chimerico nel mondo delle contrapposizioni feroci e degli schieramenti radicali. Ricorda lo slogan di Erdogan: “nessun problema coi vicini”. Si è tramutato, in breve, nel suo rovescio: “nessun vicino senza problemi”.

I vicini che, almeno in questa fase, si è alienato sono gli europei. Grazie al declinante prestigio di Angela Merkel, all’indubbio consenso in patria, e alla simpatia suscitata come alfiere del “nuovo”, si è posto come campione e punto di riferimento del Vecchio Continente. Tanto che sui giornali d’Oltralpe, si è già cominciato, e con largo anticipo, a vaticinare il suo futuro dopo i dieci anni trascorsi all’Eliseo (dando per scontata la rielezione al secondo mandato). Avrà allora, meno di cinquant’anni, e l’abito su misura per lui sarebbe quello di primo presidente degli “Stati Uniti d’Europa”, carica che starebbe già cominciando ad inseguire. Un lavoro ben avviato ma interrotto con la decisione interventista nell’avventura siriana, senza nessun coordinamento coi partner e anzi lacerando l’Europa. Accodandosi a Trump, si è comportato come fecero i “volenterosi” della coalizione di George Bush il figlio per l’Iraq (diversi Paesi dell’Est più la Spagna), per questo fortemente criticati: in nome della fedeltà atlantica avevano diviso il Vecchio Continente.

Conscio di queste sue battute d’arresto, si è presentato per la prima volta il 17 aprile scorso al Parlamento di Strasburgo per rilanciare l’immagine e riproporsi come campione e difensore dei valori europei, con un discorso al contempo vigoroso e ambizioso. Ha messo in guardia dal pericolo di «una guerra civile europea, ma non dobbiamo cedere al fascino dei sistemi illiberali e degli egoismi nazionali». L’unica risposta è «la democrazia liberale». Da rilanciare attraverso ottanta iniziative in vari ambiti per rafforzare la credibilità della Ue.

Pur se sull’allentamento delle politiche di rigore nella zona euro ha già incassato il no degli Stati del Nord e lo scetticismo della stessa Angela Merkel. Sui migranti ha proposto incentivi economici alle comunità che li accolgono e regole comuni sul diritto d’asilo. Tanto slancio è sembrato, soprattutto a noi italiani, cozzare contro il cattivo esempio del blitz dei gendarmi nel centro per i migranti di Bardonecchia. Naturalmente è stato incalzato sulla Siria, un nervo scoperto che gli ha fatto alzare i toni della voce: «Abbiamo distrutto tre siti di produzione di armi chimiche senza provocare nemmeno una vittima. Non abbiamo dichiarato guerra ad Assad, l’intervento non ha nulla a che vedere con l’Iraq o la Libia, abbiamo solo salvato l’onore della comunità internazionale».

Per la Libia era partito, con impazienza e senza nemmeno attendere la luce verde del Consiglio di sicurezza che sarebbe arrivato di lì a poco, Nicolas Sarkozy. L’Iraq aveva trovato un Jacques Chirac riluttante dopo che invece aveva partecipato alla missione in Afghanistan. E, tanto per dar conto dei precedenti, persino il presidente-normale François Hollande aveva promosso una missione, quella nel Mali, a difesa di un Paese della “Francafrique” minacciato dal jihadismo. Situazioni diverse, nelle quali tuttavia quasi sempre si rintraccia il desiderio di Parigi di ostentare la propria forza militare. Tanto più adesso che, dopo la Brexit, la Francia è il solo Stato Ue a possedere l’atomica.

Emmanuel Macron, a dispetto dell’afflato europeo, procede dunque in continuità con una politica nazionale dalle solide radici. Difesa, tra l’altro, da quell’ “état profonde”, Stato profondo, che alla lunga prevale persino sui presidenti dai larghi potere. Sono gli apparati militari, la burocrazia estesa e formata nelle migliori scuole che garantisce visioni prospettiche a dispetto di ogni frattura contingente. La Siria ne è un esempio. Nella lunga durata della guerra, entrata nell’ottavo anno, si sono avvicendati tre Capi di Stato a Parigi. Con Assad hanno mantenuto, tutti, la stessa postura, ne hanno reclamato a gran voce la cacciata. Hollande si era detto disposto ad accompagnare Barack Obama in una campagna aerea, se il dittatore di Damasco avesse varcato la “linea rossa” dell’uso dei gas. Fu Obama a sottrarsi. La Siria è anche diventata, agli occhi dei francesi, la terra in cui sono stati decisi e programmati gli attentati dello Stato islamico che hanno insanguinato le strade di Parigi e di Nizza. A ridosso del Bataclan, il ministero della Difesa aveva preparato piani per una ritorsione in grande stile che non ha mai visto la luce. Causa l’impossibilità di procedere da soli contro un nemico tanto infido. La grandeur aveva dovuto ripiegare sulla certosina costruzione di alleanze, usare a terra i soldati curdi, per sconfiggere il sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Quello fu un implicito riconoscimento d’impotenza, la misura di un apparato bellico non in grado di vincere senza appoggi una sfida tanto importante.

Macron, il presidente che ha voluto ripristinare tutta la simbologia del potere ieratico e magnificente, ha cercato fin dall’inizio di restituire il rango e il prestigio alle sue forze armate. A partire dalla sfarzosa sfilata sui Campi Elisi del 14 luglio che impressionò persino un uomo di mondo come Donald Trump. Ora non si è fatto sfuggire l’occasione della sua prima guerra, e pazienza se gli altri europei sono insofferenti. Anzitutto la Francia.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso