Con le mostre Rovereto guadagna e cresce. Grazie a idee nuove, soldi pubblici ben spesi. E distanza dai centri di potere. Facile? Risponde il presidente Franco Bernabé
Lassù sulle montagne. A più di cinquecento chilometri da Roma e duecento da Milano. Difeso da invisibile muraglia, il Mart, nell’annus horribilis dei musei italiani, ha resistito all’assedio della crisi. E ha vinto. Anzi rilanciato. Aumento di visitatori. Bilancio a posto. Ottimi rapporti con le autorità locali e istituzioni internazionali, saldo in sella il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (in arte Mart) elenca i dati del 2013 e lancia dritto lo sguardo verso il futuro. I conti parlano. Le ultime mostre su Antonello da Messina e “L’altro ritratto” ben più contemporaneo curato dal filosofo Jean Luc Nancy, chiudono con 96.007 biglietti venduti 3.668 cataloghi acquistati, forte presenza della stampa nazionale e internazionale. Lo staff si rasserena, la tempesta per ora non li ha toccati. Oltre 266mila visitatori in piena crisi sono un bel numero. E in crescita costante. Controtendenza. Contro ogni apparente logica che lo vuole scomodo, circondato da un gradevole cittadina ma che certo non brilla di attrattive per il turista medio. A parte il Mart, guidato da una direttrice quarantenne, Cristiana Collu, che un paio di anni fa, con sorpresa di tutti, vinse un concorso contro più forti e temibili concorrenti. Un museo costruito pezzo a pezzo da Gabriella Belli (ora a capo dei Musei Civici di Venezia) che nel 1989 aveva a disposizione un paio stanze polverose e nel 2002 offrì al pubblico un grande edificio firmato da Mario Botta e una delle più importanti collezioni di arte italiana anni Venti, Trenta e Quaranta. Presieduto infine da Franco Bernabè che da dieci anni è capo di tanta istituzione, preservandola da quei virus chiamati spoil system, commissariamenti, nomine discutibili e sussulti al vertice che hanno rosicchiato alle radici strutture ben più potenti. Un presidente a cui ora tutti pensano per altri incarichi, magari a Roma, e a cui val la pena di chiedere che cosa ha salvato il Mart, sperando che almeno lui conosca il vaccino da somministrare anche al resto del sistema musei Italia.
Bernabè, non avete una posizione strategica. Non vi lanciate in eventi acchiappa pubblico. Non fate corsi di presciistica e le vostre mostre sono complesse e sofisticate. Nel 2013 a parte Antonello, avete proposto un bellissimo omaggio a Bloomsbury firmato Lea Vergine; una mostra intensa sul filosofo Rudolf Steiner; una rassegna ben documentata sull’architetto Adalberto Libera; e un riallestimento singolare delle collezioni lungo un intero chilometro. Insomma siete lontani, rigorosi, poco demagogici eppure oggetto di continuo pellegrinaggio. Come fate a crescere in tempi tanto duri?«Lo ha detto lei: continuità, competenza, uno standard elevato della proposta e soprattutto l’attenzione della pubblica amministrazione ad un investimento che aveva le dimensione giuste e che è stato gestito senza interferenze e intromissioni della politica».
Quali intromissioni e quale politica?«Le pressioni di una politica locale, soprattutto, che in altre situazioni e altri musei ha cercato di dettare l’agenda, imporre tagli scriteriati o scelte di governance non trasparenti. Questo qui non c’è stato. Gabriella Belli ha creato la struttura e l’ha portata a standard molto elevati. Ci ha lasciato delle collezioni importanti che sono la vera forza di un museo e fanno del Mart un interlocutore dei grandi musei del mondo, tanto che la mostra sul Futurismo in primavera al Guggenheim di New York è costruita prevalentemente sui nostri prestiti. Cristiana Collu, poi, ha presentato un progetto altrettanto qualificante con un ammontare di risorse decisamente più basso. Non era facile di fronte a un taglio del 70 per cento del budget. Quindi bisognava trovare una persona che sapesse reinterpretare il ruolo del museo mantenendo il livello di qualità con molti meno soldi. A giudicare dai risultati l’abbiamo trovata».
Eppure la nomina della direttrice Collu fece discutere. Una giovane che arrivava dal piccolo museo di Nuoro aveva battuto nomi e curricula molto più potenti del suo.«La scelta è stata inaspettata ma sono i risultati che contano. Lei aveva il progetto più convincente e adatto ai tempi. Ha convinto non solo me, ma l’intero comitato scientifico da Salvatore Settis a Isabella Bossi Fedrigotti. E puntare su nomi non consolidati può essere un’ ottima strategia, a volte. Quando Abby Rockefeller cercò un direttore per il nascente MoMa, scelse un giovane uomo senza un consistente curriculum. Si chiamava Alfred H. Barr Jr e cambiò la museografia del mondo».
Il confronto è ambizioso.«Più che confronto, un esempio. Quel che mi preme dire è che i musei riflettono lo spirito dei tempi e se vogliono funzionare devono cambiare velocemente con loro. Prima di Barr il museo era un oggetto di contemplazione con quadri appesi a un muro. Istituzione immobile dai tempi della rivoluzione francese quando venne espugnato il Louvre e trasformato da Palazzo di Corte in Muséum Central des Arts. Il luogo dove tutti democraticamente potevano accedere alla bellezza fino ad allora monopolio dell’aristocrazia. Poi divenne l’immagine stessa della potenza di uno Stato napoleonico e imperialista che fa sfoggio delle ricchezze conquistate. Ma in ogni caso sempre opere ferme, incatenate alle sale. Da allora, bisogna apettare Barr e il suo MoMa perché tutto cambi e si entri nell’era del museo moderno».
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Vale a dire?«Un luogo di eventi e non di silenzi dove non si appendono quadri ma si vive l’esperienza museale. Barr introdusse la didattica, il prestito ed ebbe per primo l’idea delle mostre itineranti. Prima di lui le opere acquistate restavano segregate nel deposito o messe in mostra permanente col “vietato toccare”. Con lui la collezione diventa una risorsa, un patrimonio vivo. Nasce un’ idea imprenditoriale di museo che ci accompagna fino alla seconda rivoluzione museografica del Novecento: il Centre Pompidou».
Cosa aggiunge il Pompidou alla formula del MoMa?«Intanto l’edificio. Il museo come focus capace di rivitalizzare la città indipendentemente dalle opere. Parigi non sarebbe la stessa senza l’edificio di Piano& Rogers. Londra è cambiata con la Tate Modern di Herzog&de Meuron. Del resto dagli anni Settanta quando le ore di lavoro diminuiscono, il museo entra nel circuito del tempo libero.Che, a sua volta, cresce col passare dei decenni, l’automatizzazione di molti lavori, il diritto al weekend e alle ferie e l’esplosione del turismo. Insomma con il Boeing 747 nasce anche il museo contemporaneo».
Il Boeing 747, ha detto?«Il Jumbo Jet, il più grande velivolo civile per trasporto passeggeri. Lo strumento che negli anni Settanta ha fatto nascere il turismo di massa e con il turismo di massa il bisogno di avere musei diversi, edifici dotati di servizi, ristoranti, caffè attività articolate. Cultura contemporanea.Noi abbiamo mancato questo appello e i musei italiani non fanno i numeri che dovrebbero. L’unico nostro museo che compare tra i primi dieci del mondo non è italiano: sono i musei Vaticani con 10 milioni di visitatori. Per trovare il primo davvero italiano dobbiamo scendere al 21mo posto. Lì ci sono gli Uffizi».
Eppure lei prima ha detto che la forza di un museo sono le collezioni. E a noi non mancano.«Ho detto le collezioni e con loro la continuità, la competenza e la non intromissione della politica. Ma mi sembra che la politica condizioni la governance dei musei. Che lo spoil system li penalizzi. Invece di essere considerati una risorsa economica del Paese sono ostaggio spesso dei piccoli poteri di politiche locali. Anche per questo siamo a un crollo verticale della quota del mercato turistico. La Spagna ha avuto una flessione minore della nostra, la Germania non ha perso quasi niente. Non è la crisi economica a penalizzarci ma l’immobilismo del Paese, la mancanza di progetti, l’incapacità di sfruttare le nostre risorse».
Ci può aiutare a capire con qualche esempio?«Tre esempi: L’Istituto Centrale del Restauro, l’Istituto di Patologia del libro, l’Opificio delle pietre dure. Tre scuole di eccellenza internazionale. Hanno tutti i numeri per attrarre studenti di ogni parte del mondo, con indotto economico straordinario. In un altro Paese sarebbero protette, sostenute e potenziate. Ebbene noi invece le stiamo chiudendo. Tanto che la Getty Foundation ha finanziato il mantenimento in servizio di alcuni docenti restauratori all’Opificio di Firenze altrimenti niente più corsi. Se è ancora aperto lo si deve solo a un grant del Getty».
Torniamo al Mart. Qual è il segreto della sua buona salute? Quale formula lo preservato dalla crisi?«La necessaria attenzione della politica.Perché sebbene questo museo con il 25,30 per cento di autofinanziamento in questi anni sia stato in linea con le “best practices” mondiali di questo tipo di istituzione, non possiamo prescindere dal sostegno pubblico. Qui in Trentino non è mai mancato. Altrove invece manca del tutto la percezione che il sistema museale è un asset fondamentale per il Paese, per l’attività di un territorio, per l’economia dell’intero Paese, per la formazione dei cittadini. Quando non manca, troppo spesso si trasforma in invadenza, voglia di dettare l’agenda, di sostituire le clientele alle competenze. E se l’attenzione verso il museo diventa appropriazione da parte della politica è difficile che si riesca a sopravvivere».