Scienza
L'arte svela il funzionamento del cervello
Cosa accade nel cervello quando ci troviamo di fronte a un dipinto, una scultura o anche una sfilata di moda. Ecco come i neuroni regolano il senso del bello
Osservate la “Bambina che corre sul balcone” di Giacomo Balla. Oppure fermatevi davanti a “Le cap Layet” di Henri Matisse, o analizzate con attenzione uno dei tanti capolavori di Georges Seurat. Poi concentratevi sul tratto dell’artista, cercando di immaginare i movimenti compiuti dalla mano che regge il pennello: quanta forza è stata impressa sulla tela, come è stato steso il colore, quale direzione ha preso il braccio del pittore (da destra a sinistra, dall’alto in basso...). Sappiate che, dopo questa operazione, la vostra valutazione di quel dipinto, il vostro giudizio estetico su quell’opera d’arte, sarà cambiata: e molto probabilmente il quadro vi piacerà di più.
È l’ultimo esperimento condotto nell’ambito della cosiddetta “neuroestetica”: quella disciplina che, come spiega Francesco Luca Ticini, neuroscienziato cognitivo all’Università di Manchester e presidente della Società Italiana di Neuroestetica “Semir Zeki”, indaga i meccanismi neurali e le strutture cerebrali che mediano l’apprezzamento estetico e la creatività. E dunque, cerca di spiegare cosa esattamente accada nel cervello quando ci troviamo di fronte a un dipinto, a una scultura, persino a una sfilata di moda.
L’esperimento condotto da Ticini in collaborazione con un gruppo di ricerca francese, appena pubblicato su “Frontiers in Human Neurosciences”, serviva a rispondere proprio a questo interrogativo: poiché la creazione di un’opera d’arte richiede un’attività motoria (pensiamo a un musicista che suona o a un pittore che dipinge), fino a che punto il fatto che quell’opera ci piaccia o meno è legato ai movimenti che compie l’artista durante la creazione?
L’ipotesi di partenza chiama in causa i famosi “neuroni specchio”, quelli che si attivano quando un individuo compie un’azione ma anche quando un individuo osserva la stessa azione compiuta da un altro. Come se, guardando la “Notte stellata” di Van Gogh, simulassimo mentalmente i movimenti del braccio necessari a tracciare quelle ampie pennellate tipiche del quadro.
Così Ticini e i suoi colleghi hanno chiesto ad alcuni volontari di osservare novanta dipinti, preceduti da immagini che stimolavano la simulazione involontaria di un atto motorio, proprio attraverso l’attivazione dei neuroni specchio. Questa simulazione poteva essere compatibile o incompatibile con i movimenti dell’artista. Poi i ricercatori hanno chiesto ai volontari di valutare esteticamente gli stessi dipinti in queste due condizioni. «Abbiamo osservato che quando l’immagine che precedeva il quadro era congruente con le pennellate sul dipinto, il giudizio dell’opera aumentava significativamente», continua Ticini. Insomma, l’opera veniva apprezzata di più se la sua osservazione veniva preceduta dalla simulazione dei movimenti compiuti dall’artista.
A che serve tutto questo? Intanto a capire che - al di là di fattori come l’istruzione, il contesto storico e la natura degli stimoli artistici - quando il cervello attribuisce un valore estetico a un’opera d’arte mette in gioco meccanismi non del tutto intuibili e ancora poco studiati, come l’attivazione delle aree motorie. Ma non solo: un’importante area di ricerca futura aperta da questi studi sarà quella relativa ai meccanismi neurali coinvolti in alcuni deficit sociali e comunicativi connessi con la simulazione, come l’autismo.
Lo stesso vale per malattie del cervello tipo l’Alzheimer, come racconta il neurologo americano Anjan Chatterjee in un articolo appena apparso su Trends in Cognitive Sciences. Chatterjee si è focalizzato sulle opere del pittore e scultore americano di origine olandese Willem de Kooning, esponente dell’espressionismo astratto, colpito dalla malattia neurodegenerativa negli ultimi anni della sua vita. Come sono cambiate le sue opere dopo il danno cerebrale? In che modo le malattie del cervello modificano la percezione del mondo e la sua rappresentazione artistica? «I cambiamenti nello stile di questo pittore, prima e dopo l’Alzheimer, rappresentano una finestra straordinaria sul cervello e sul modo in cui lavora», spiega Chatterjee. Altre preziose informazioni arrivano dai lavori di Lovis Corinth, pittore tedesco colpito nel 1911 da un ictus che danneggiò la parte destra del cervello. «I danni all’emisfero destro», continua Chatterjee, «possono alterare l’elaborazione delle informazioni relative alla parte opposta del corpo».
Ecco perché nei suoi quadri Corinth ometteva spesso i dettagli relativi alla parte sinistra degli oggetti o dei personaggi rappresentati nei ritratti. Un danno all’emisfero destro può avere anche altre conseguenze “artistiche”, impedendo la corretta gestione delle informazioni spaziali: dopo un ictus analogo a quello di Corinth, l’artista americana Lorin Hughes cominciò ad avere difficoltà a coordinare le relazioni spaziali tra le linee, e fu costretta ad abbandonare il suo stile realistico per adottarne uno più astratto. Viceversa, continua il neurologo americano, un danno all’emisfero sinistro può influire sulla percezione dei colori e persino sui contenuti delle opere: il pittore bulgaro Zlatio Boiadjiev, per esempio, noto per l’uso dei toni marroni e i suoi soggetti naturali, cominciò ad adottare uno stile più vivace, ricco e colorato, con soggetti astratti e fantastici proprio in seguito a un danno all’emisfero destro.
Ad aiutare i ricercatori nello studio del cervello durante l’esperienza estetica sono ovviamente le tecniche di imaging: la risonanza magnetica funzionale (fMri) o la stimolazione magnetica transcranica (Tms). Mentre la prima visualizza l’attività cerebrale nelle aree corticali e subcorticali - così da indicare le basi neurali dei processi estetici - la seconda invia piccoli impulsi magnetici nel cervello.
Questo approccio, spiegano i ricercatori, è per esempio molto utile per studiare il meccanismo dei neuroni specchio, quello indagato proprio nell’esperimento del gruppo inglese. Ma la Tms, continua Ticini, è stata utilizzata anche per studiare il ruolo della simulazione motoria nel generare le sensazioni di piacere quando si ascolta della (buona) musica.
Attenzione, però: non si deve pensare che la neuroestetica serva a spiegare meglio l’arte attraverso le neuroscienze. Gli studi condotti fino ad ora, infatti, non sono tesi a stabilire il valore estetico di un’opera, e magari anche il suo prezzo. Il suo obiettivo, spiegano i neuroscienziati, è invece quello di comprendere il funzionamento del cervello attraverso lo studio di opere d’arte e la collaborazione con gli artisti. Il gruppo del ricercatore italiano, per esempio, collabora attivamente con pittori, musicisti, ballerini e coreografi, tra cui persino Louise Wagner, la diretta discendente di Richard Wagner e Franz Liszt. Grazie alla loro esperienza, gli artisti aiutano i neurologi a porsi le domande giuste e a produrre stimoli artistici per gli studi. «Con Emily Cross - ballerina e neuroscienziata alla Bangor University - abbiamo lavorato con i ballerini al Teatro dell’Opera di Lipsia per indagare il rapporto tra l’esperienza fisica e la valutazione estetica nella danza», aggiunge Ticini.
Il gruppo franco-britannico non è l’unico a utilizzare l’arte per cercare di comprendere meglio il funzionamento del cervello. Né si deve pensare che l’unica forma d’arte coinvolta dalle sperimentazioni sia quella figurativa. Al contrario, anche la poesia e la letteratura hanno molto da dire in proposito. Lo dimostra, per esempio, l’esperimento andato in scena nei saloni della Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia: un happening al crocevia tra neuroscienze, musica e poesia sperimentale, con un pizzico di provocazione, per festeggiare gli ottant’anni di Ben Patterson, tra i fondatori del movimento artistico Fluxus.
Il Dr. Ben (alias Patterson) nel suo “Medicine Show” offre una cura miracolosa a coloro che hanno difficoltà a comprendere e ad apprezzare l’arte contemporanea. Così, dopo aver illustrato i fondamenti della neuroestetica e le modalità con cui le diverse aree del cervello interagiscono tra loro per dar vita a giudizi artistici, i presenti hanno potuto sottoporsi a una scansione del cervello diagnostica, per individuare quei blocchi e quelle connessioni difettose che impediscono il pieno godimento dell’arte contemporanea. Dopo la diagnosi, la terapia: acqua sorgiva della fontana del Wandelhalle del Museo di Wiesbaden, luogo di nascita del movimento Fluxus.
Più istituzionale il Dialogo Transdisciplinare sulla neuroestetica appena organizzato dall’Università di Catania, che ha visto tra i protagonisti proprio Semir Zeki, professore di neurobiologia allo University College di Londra e autore del termine “neuroestetica” alla fine degli anni Novanta, nonché il primo ad aver condotto le indagini sperimentali sui principi neurali alla base dell’esperienza estetica. «Con questo incontro tra scienza e poetica abbiamo voluto ribadire il valore degli studi umanistici nell’ambito della neuroestetica», spiega Grazia Pulvirenti dell’ateneo siciliano, che insieme a Renata Gambino ha organizzato il convegno. L’idea è che anche la letteratura, in quanto produzione artistica, dia il suo contributo allo studio del cervello: in molti testi, spiega Pulvirenti, ci sono descrizioni del flusso di coscienza che possono aiutare a fare luce sull’attività dei neuroni. E magari anche sul mistero del processo creativo.