Secondo un recente studio consumare alimenti dolci, bevande comprese, farebbe aumentare la frequenza cardiaca. Ma via libera a latte, pesce. E vino. I medici disegnano le nuove regole alimentari. Con molte novità
Sorpresa: gli zuccheri fanno male al cuore. E, in base a un’analisi pubblicata su “American Journal of Cardiology”, sarebbero persino più temibili del sale. Tanto che
James Di Nicolantonio, autore della ricerca, arriva a raccomandare a chi ha la pressione alta di tagliare i dolci prima del sale. Consumare alimenti zuccherini, comprese le bevande che sono ormai un fuoripasto molto diffuso, stimolerebbe infatti l’ipotalamo - una sorta di “centrale di controllo” dell’organismo - dalla quale partono una serie di segnali che arrivano fino al cuore e ai vasi sanguigni, col conseguente aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa.
È una rivoluzione copernicana che potrebbe evitarci il ricorso a spezie ed erbe aromatiche nel tentativo di ridurre il sale da cucina, a patto di rimanere indifferenti a paste, bibite e macedonie. «Il principio di base è giusto perché l’eccesso di zuccheri complessi può avere effetto anche sulla pressione», spiega Claudio Borghi, direttore dell’Unità operativa di medicina interna del Policlinico S.Orsola-Malpighi di Bologna. In particolare il processo di trasformazione di zuccheri come il fruttosio porta alla produzione di sostanze che possono danneggiare le pareti dei vasi e sicuramente conduce ad un incremento dei livelli di acido urico nel sangue. Questo può comportare un rischio cardiovascolare più elevato. Tuttavia, corregge Borghi: «Non si può dire che i cibi eccessivamente salati sono meno pericolosi di quelli dolci».
Quel che è certo, però, e che l’analisi pubblicata dell’“American Journal of Cardiology” è un altro fondamentale tassello nella complicata costruzione di una vera e propria dieta salvacuore. Cardiologi e nutrizionisti ne sanno sempre di più sui meccanismi attraverso cui sostanze diverse possono influire sulla salute cardiovascolare, anche se faticano ancora a delinearne precisamente il ruolo nella degenerazione cardiovascolare. Il rischio è che i medici finiscano per aprire la strada a delle mode alimentari che privilegiano questo o quell’alimento mentre ne demonizzano altri.
I sanitari riuniti all’ultimo congresso della Società europea di cardiologia, ad esempio, erano estasiati dalle virtù di una dieta “danese” come paradigma alimentare per i paesi del nord Europa; e fiumi d’inchiostro sono stati versati per dire e ribadire che il modello di tutte le alimentazioni virtuose è la dieta mediterranea. Poi è stata la volta della vitamina C che, in dosi elevate, prometteva di proteggere dall’infarto; della prescrizione di bere due bicchieri di vino rosso al giorno, o ancora dell’indicazione di puntare sulla vitamina D come arma salvacuore. In sintesi, molti hanno indicato in una dieta antiossidante un buon viatico contro le malattie cardiovascolari. perché è un fatto che il consumo di frutta e verdura, le maggiori fonti di antiossidanti, si associ a una riduzione del rischio di ictus ischemico, che rappresenta l’ottanta per cento degli infarti cerebrali. «È vero che si è visto che esiste una correlazione inversa tra eventi cardiovascolari ed assunzione di sostanze antiossidanti, ma è altrettanto vero che nessuno studio clinico randomizzato ha dimostrato la reale utilità degli antiossidanti nella prevenzione cardiovascolare», spiega Damiano Rizzoni, docente presso la Clinica Medica dell’Università di Brescia, autore di un’analisi di tutti i possibili “salva-cuore” sul sito web della Società Italiana di prevenzione Cardiovascolare (Siprec): «Ma avere dati certi è difficile perché il sistema antiossidante è costituito non solo da elementi introdotti nell’organismo attraverso quello che mangiamo e beviamo, ma anche da fattori intrinseci allo stesso organismo. È questo mix di componenti genetiche e ambientali che genera l’azione protettiva per le arterie».
VITAMINE SÌ, PASTICCHE NOEppure è un fatto che ci siano sostanze più utili di altre a fare da scudo al cuore. A partire dalle vitamine. Negli anni scorsi, erano tutti sicuri che bisognasse assumere vitamina A in virtù di due osservazioni. Innanzitutto si è visto un’alimentazione ricca di questo composto - di cui sono ricchi latte, uova, pesce, vegetali di colore arancione - aiuta a ridurre la pressione. E si è anche scoperto che più bassi sono i valori di vitamina A nel sangue più alto è il rischio di infarti ed ictus.
Lo stesso si può dire della vitamina C che limita l’ossidazione del colesterolo cattivo Ldl e può far scendere di poco la pressione arteriosa; non solo: come nel caso della A, bassi livelli di vitamina C sembrano essere correlati ad un maggior rischio di aterosclerosi e di infarto miocardico.
«Questi dati vengono da studi epidemiologici che non possono stabilire con certezza il ruolo protettivo della vitamina», precisa Rizzoni. Ma posssono aiutare a schizzare una dieta protettiva: insomma, anche se non è ancora del tutto chiaro perché, sembra che le vitamine siano cardioprotettive se sono assunte con una dieta ricca di frutta e verdura. Perché il fatto molto concreto, e supportato da molti studi condotti negli ultimi anni, è che non è utile assumere supplementi. anzi dosi molto alte di queste sostanze potrebbero addirittura far salire il rischio cardiaco. E stiamo parlando di tutte le vitamine: dalla C alla D alla E. Conclusione: «Per quanto gli alimenti ricchi in vitamine abbiano effetti favorevoli sulla salute questo non basta a giustificare l’uso di supplementi vitaminici», taglia corto Rizzoni che invece spezza una lancia per il “bicchiere” di vino. Gli studi su ampie popolazioni dicono, infatti, che esiste una correlazione inversa tra moderato consumo di vino e rischio di eventi cardiovascolari: il “bicchiere”, insomma, protegge. Se si esagera, però, i pericoli per l’organismo crescono a dismisura».
BICCHIERE SUPERSTARPer il bene del cuore, quindi, occorre considerare che una dose quotidiana “moderata” (e quindi con effetti protettivi), è stimabile intorno ai 24-36 grammi di etanolo per gli uomini (2-3 bicchieri) e 12-24 per le donne (1-2 bicchieri). Ed è bene anche bere regolarmente: il bicchiere “una tantum” non serve a nulla in questo senso. «Un consumo moderato di bevande alcoliche riduce significativamente la mortalità per aritmie, il rischio di infarti e di ictus», precisa Rizzoni: «Non c’è ragione di scoraggiare l’abitudine a berne modeste quantità, ma non è nemmeno il caso di fissarsi su questa sostanza fino a iniziare ad assumerne a scopo profilattico o terapeutico». ?Il che, fatte le debite distinzioni di gusto e culture, si può dire anche del tè verde, che ha un effetto antiossidante e chi lo sceglie sembra rischiare meno di essere colpito da ictus cerebrale: chi beve regolarmente almeno tre tazze di tè verde al giorno hanno un rischio inferiore del 20 per cento circa di sviluppare ictus.
Latte, frutta arancione, vino o the. La scienza è a caccia del perfetto salvacuore. ma, pur confermando la lista dei cibi buoni e di quelli cattivi, i cardiologi finiscono con ripetere la solita vecchia litania: per proteggere il cuore nella persona sana non serve altro che una dieta equilibrata, che offra tutti i nutrienti e le vitamine necessari. E soprattutto, non bisogna confidare solo sull’alimentazione, come ricorda una ricerca condotta su quasi 21 mila maschi seguiti per 11 anni all’Istituto Karolinska di Stoccolma, pubblicata su “Journal of American College of Cardiology”. Per risparmiare almeno un infarto su cinque nei maschi adulti bisogna puntare sul pokerissimo. I cinque assi? Bere poco, non fumare, fare una dieta sana, muoversi regolarmente e controllare il peso corporeo.
Se proprio volete, aggiungete ai pasti un quadretto di cioccolato fondente, ricco in flavonoidi, ad azione protettiva per i vasi. Ma pochi o nessun energy drink: chi ne abusa rischia una vera e propria sindrome da caffeina con tremori, ansia, mal di testa e tachicardia. L’eccesso può portare a un maggiore rischio di aritmie e deficit della capacità di contrazione del cuore, oltre che a vere e proprie crisi anginose. Come è ampiamente dimostrato da uno studio francese condotto da Milou-Daniel Drici, basato sulle informazioni raccolte dal 2009 al 2012 dall’agenzia francese per la sicurezza degli alimenti Anses.