Cultura
12 luglio, 2016

2001, quell'inizio fu una fine

Il G8 di Genova. Le Torri gemelle. La nascita dell’euro. Il boom di Internet. Era la prima estate del nuovo millennio. Solo oggi, 15 anni dopo, capiamo il suo vero significato. Il racconto dello scrittore

E così un’estate ha aperto un secolo e chiuso troppe strade, tre mesi hanno fatto cadere quasi tutte le speranze. Eravamo arrivati al passaggio epocale carichi di attese, e al cambio di cifre con meno spavento dei sistemi informatici. Il 2001, odissea nello spazio virtuale, aveva da offrirci, già sotto capodanno, una enciclopedia universale, Wikipedia, e uno scaffale infinito, iTunes.

Spendevamo le ultime lire rimaste in tasca senza troppa nostalgia. Uno degli ultimi libri che ho pagato con la vecchia moneta si chiamava “Il mio secolo”, finiva con una signora ultracentenaria affacciata a un balcone - i pronipoti, giù in strada, sfrecciano sullo skate: «Adesso, perché mio figlio vuole così, devo assistere all’entrata in vigore dell’euro... Sono contenta anche se penso al 2000. Stiamo un po’ a vedere cosa ci porta... Basta che non sia di nuovo la guerra... Prima laggiù e poi dappertutto...». Il figlio di cui parla è lo scrittore Günter Grass, che prendeva congedo dal Novecento con una raccolta di cento racconti, uno per anno. Nell’ultimo, dava appunto voce alla madre. Nel primo, evocava un trionfo di cappelli di paglia, gente seduta a prendere il fresco sui grandi boulevard, una lietezza senza ragione. Passi di danza su un campo minato, sì: in nemmeno tre lustri, scriveva Grass, quei cappelli di paglia si sarebbero trasformati in cuffie chiodate. Mi domando che faccia avremo noi, alla distanza, e se sui libri di storia somiglieremo a quei trisavoli ipnotizzati dal passaggio epocale, pieni di illusioni che gli anni avrebbero tradito in fretta.
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È bastata un’estate. Avevo appena compiuto diciott’anni, partivo per le vacanze. C’era chi invece partiva per Genova, giovani e non - a migliaia - in marcia dal mondo verso la stessa città. I grandi del pianeta letteralmente barricati, e fuori la protesta che infuria. La notte di mercoledì 18 luglio, da un palco, il cantautore Manu Chao lancia versi che dicono così: «È un mondo difficile e vita intensa felicità a momenti e futuro incerto e nostra piccola vita e nostro grande cuore». La notte di mercoledì 18 luglio, in una clinica di Milano, il giornalista Indro Montanelli - il più vecchio, il più bravo di tutti - chiama accanto al letto la nipote Letizia e le detta il suo necrologio: «Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza...».

Giovedì 19 luglio per le strade di Genova sfilano pacificamente militanti e cittadini mescolati a molti stranieri, per richiamare l’attenzione dei potenti sui diritti degli extracomunitari. La battaglia esplode il venerdì, corteo dopo corteo, il fumo dei lacrimogeni e degli estintori avvolge la guerriglia - sassi, auto incendiate, cassonetti ribaltati. Fra pietre e bastoni che volano, un estintore raccolto da terra può diventare un’arma; lo sono già un paio di proiettili che un carabiniere ventenne spara da un fuoristrada fermo contro un cassonetto. Una ragazza, la sera di sabato, racconta di avere visto un ragazzo - quel ragazzo, Carlo Giuliani - cadere a terra. Lei era trenta metri più in là, i carabinieri avevano cominciato a picchiare.

Trenta ore dopo, nella clinica di Milano, Montanelli muore, portandosi nella tomba il suo secolo. Alla fine di quella stessa estate, né il giovane Carlo né il vecchio Indro - ai poli opposti della vita e della Storia - avrebbero visto dai televisori un’immane nuvola di fumo cancellare Manhattan. Eppure, sul primo numero dell’Espresso uscito nel 2001 un ventottenne conduttore di Mtv, Andrea Pezzi, era andato a chiedere a Montanelli: quali paure avrebbe oggi, se avesse vent’anni? E si era sentito rispondere così: «Forse avrei timore delle nuove scienze. Forse del fanatismo religioso in ascesa. Le ideologie politiche sono morte, per il momento, ma le religioni tendono facilmente a diventare politica». E ancora: paura della «pappa unificante dei nostri tempi»: «Viviamo in una società soffocata, omologante. Gli anarchici hanno provato a cambiarla con le bombe, e io stesso non conosco modo migliore». Il vecchio e disincantato anarchico sulla stessa strada dei no-global? Non proprio. Eppure: «Forme di reazione alla globalizzazione sono fisiologiche. Quale avvenire abbiano, non lo so. Ma è difficile trattenerle, perché esprimono un rifiuto».

Non so di preciso quale strada si sia chiusa con Genova, con le notti alla Diaz, con la morte di Giuliani. So che quella strada di partecipazione collettiva, di protesta, è uscita dalla Storia prima ancora di entrarci. È bastata un’estate.

Le magnifiche sorti del secolo, proclamato al suo inizio «della pace e della non violenza», franavano insieme alle Torri gemelle. Era un brusco risveglio, e avevamo appena iniziato a sognare. La rete, quel pomeriggio di settembre, era intasata: avrei preso a pugni lo schermo (con tubo catodico) del mio computer, se mia sorella - dall’altra stanza - non avesse all’improvviso urlato: «Guarda!». E tutto il mondo ha guardato, ipnotizzato e stravolto dal secondo aereo che si infilava nella Torre. Abbiamo guadagnato sangue su sangue, e paure impensabili, estranee. L’età dello shock, come l’ha chiamata Susan Sontag, si era mai davvero interrotta? Lei, in uno dei suoi ultimi, brucianti saggi, davanti al dolore degli altri, la faceva risalire alle istantanee che, dal 1914, avevano cominciato a piovere sul Vecchio continente documentando l’orrore delle trincee.

Stefan Zweig, già in un articolo della prima estate di guerra, descriveva un’Europa in cui gli uomini «di notte, ascoltano gli orologi camminare senza posa nella terrificante via da luce a luce, e si sentono consumare e rodere dentro senza tregua dal tarlo delle preoccupazioni e dei pensieri, fino a quando il cuore non si affligge e si ammala». Ora l’umanità tutta è agitata, scriveva Zweig, «più breve è ora il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i giorni». Non così diverso il batticuore del personaggio di Ian McEwan che, nel romanzo “Sabato”, mentre l’esercito americano piomba in Iraq, si proietta mentalmente, sotto la doccia, in un futuro potenziale in cui vecchi accovacciati intorno a un fuoco racconteranno di «un tempo in cui si stava nudi in pieno inverno, sotto getti di acqua calda e pulita, con in mano pezzi di sapone profumato».

È bastata un’estate. Ci ha lanciato senza paracadute in un paesaggio nuovo e minaccioso. Visione egoistica e troppo occidentale? Saul Bellow, allora quasi novantenne, riusciva già il 12 settembre del 2001 a provocare i suoi compatrioti. «Non voglio puntare il dito. Tuttavia ritengo che l’evoluzione storica della nostra nazione abbia fatto sì che una minoranza davvero esigua si interessi di problemi reali piuttosto che di quisquilie. In questo Paese dei Balocchi non c’è posto per sogni irrealizzabili. La libertà di movimento è illimitata e basta pigiare un bottone per realizzare le magie più strabilianti. Ciò ha creato nella gente un senso illusorio di immortalità e privilegio, distorcendone contemporaneamente le priorità». Bellow trovava sintomatico che, nelle infinite dirette televisive sulla tragedia, i conduttori continuassero a interrompersi per chiedere scusa ai telespettatori di avere annullato le cronache delle partite di baseball.

Dall’altra parte dell’Oceano, da qui, erano tradotte in titoli cubitali le dichiarazioni dei leader europei. Tony Blair si confermava non solo al fianco del presidente Bush ma anche di tutti i suoi colleghi europei. L’Europa dell’ultimo autunno prima dell’euro ribadiva unità e coesione di fronte alla minaccia terroristica. Sarebbe bastato aspettare un paio di mesi per leggere sui tabloid inglesi battute al veleno sull’avvento della moneta unica: «Gli euro sono le uniche banconote del mondo che non si danneggiano se finiscono per errore in lavatrice: un’evidente manovra per favorire il riciclaggio di denaro sporco»; «Pare che le prostitute del Continente non siano disposte ad accettare pagamenti in euro». Grazie a Dio siamo inglesi e restiamo fuori - il sospiro di sollievo tradotto nelle vignette satiriche acidissime del “Sun”. Proprio a un comico toccò fare il controcanto europeista: Eddie Izard, leader non ufficiale dei favorevoli alla moneta unica, scomodò in quei giorni perfino Churchill. «Già negli anni Quaranta parlava di avvicinare il nostro Paese all’Europa: perché non lo ascoltiamo?». Quindici anni dopo e con Brexit di mezzo, ha l’aria di una domanda retorica, risuonata a vuoto o per l’appunto comica.

È bastata un’estate. Più che una profezia, un riassunto a priori di ciò che avremmo visto svolgersi dopo: chiamiamole così, le istruzioni per l’uso di un secolo. Difficili da interpretare, da maneggiare, da digerire, smentivano a una a una le promesse che un cambio di calendario porta sempre con sé. «Non domandatemi», scriveva Jonathan Lethem nel settembre 2001, «come sia cambiato il mondo: domandatemi come sono cambiato io».

E noi, quanto siamo cambiati, quanto stiamo cambiando? Gli effetti collaterali della paura di questo primo quindicennio del ventunesimo secolo hanno polverizzato ogni certezza. E - assecondando un metronomo fuori fase - ci riportano di continuo nell’incubo della “fine di qualcosa”. Proprio dove pensavamo di scrivere la parola inizio.

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