Megapoltrone e minisedie. Mobili di lusso e lampade Ikea. In un gioco di illusione e sottrazione

La sua Metropoli, una meccanica di precisione dove ti siedi su 25 luccicanti pistoni quadrati che scendono adeguandosi lentamente alla forma e al peso del tuo corpo, la vende solo una galleria d'arte, la Rossana Orlandi di Milano, i pezzi li conti sulle dita di una mano, il prezzo è 27 mila euro: art design, si chiama, l'opposto dell'industrial design. Ma all'ultimo Fuorisalone del mobile al Superstudio di Milano ha portato a sorpresa una serie di lampade, nome Morea come la ninfa dell'albero di gelso, costruite con le scodelle d'acciaio inox dell'Ikea, a fungo una sull'altra in varie combinazioni o a doppia coppa svitabile e regolabile con luci interne a led: redesign, si chiama, in accordo col colosso svedese e con tanto di marchio originale, prezzo più che accessibile, capsule collection in preparazione. Vabbè, uno pensa, c'è il pezzo di rappresentanza e quelli che poi vendi davvero, come l'haute couture e lo store, strategia commerciale, insomma.

Invece no. Al contrario, è costitutivamente un design degli estremi, quello di Pietro Travaglini, 40 anni, bolognese, tra i più estrosi della nuova generazione e certo tra i meno prevedibili. Controprova, su questo gioco degli estremi? La duplice e opposta idea di spazio cui rimandano e rispondono i suoi pezzi, tavoli sedie lampade librerie e quant'altro: alcuni concepiti e progettati con rigore persino maniacale per spazi minimi, dunque per sottrazione e obbligatoriamente polifunzionali, altri ugualmente senza fronzoli e polifunzionali per scelta estetica ma distesi su spazi e ingombri a prescindere.

[[ge:rep-locali:espresso:285256981]]ODISSEA NEGLI SPAZI.
Racconta Travaglini che il suo primo scaffale, il Light Light tuttora in produzione, lo disegnò quando ancora studiava Architettura a Firenze e i suoi gli diedero come abitazione bolognese un monolocale della nonna, col tassativo divieto di cambiare alcunché: «Per separare almeno una parvenza di zona notte senza ostruire aria, luce e vista m'inventai allora una libreria appesa con fili d'acciaio a quattro tasselli al soffitto, girando un'infinità di piccole fabbriche dell'hinterland a caccia di una plastica bisatinata per i piani che riverberasse come volevo io la luce sia naturale sia artificiale, e includendo due light box in grado di illuminare i piani superiori». Anni dopo, sarà uno dei suoi pezzi d'esordio, al Fuorisalone 2009. La stessa logica presiede alla sedia Esse per bar e ristoranti, sinuosa e d'effetto ma pensata perché in un piano a metà tra il pavimento e la seduta ci puoi infilare borse e cartelle. E nasce così anche il tavolo Cassetto (ne sta trattando ora la messa in produzione con un marchio e una catena di negozi): «Come evitare di ritrovarti le sedie sempre tra i piedi, siano accostate o accatastate accanto? Piegandole con due gesti rapidi e infilandole sotto il piano esattamente come un cassetto, spessore dieci centimetri»; in un'altra e piuttosto stupefacente versione, Magnetico, addirittura calamitandole sotto il piano.

DAL SELLINO ALLA STRATOSFERA
Il percorso inventivo, fin qui, è quello classico che ha fatto grande il design italiano: da un'esigenza una domanda, da un guizzo la soluzione tecnica, l'Achille Castiglioni che l'invenzione del suo sellino per Zanotta te la raccontava spiegando come per chiacchierare con gli amici in strada si appoggiasse sempre alla sella della bicicletta, dunque perché non piazzarla su un sostegno e farne uno sgabello per telefonare, comodo e non ingombrante? Poi però sfogli le riviste (un'indagine dell'Osservatorio internazionale Nathan il saggio colloca Travaglini tra i primi dieci designer italiani più citati all'estero, e gli altri sono mostri sacri come Branzi, Mendini, Pesce, De Lucchi, Thun, Citterio, Navone) e scopri che uno dei suoi pezzi più pubblicati è la StratoSfera. Anch'essa polifunzionale, certo, visto che aprendo la sfera a spirale come i bracci ruotanti di una galassia ne escono quattro robustissimi tavolini-sedie a varie altezze e un piatto concavo; ma aperta è quasi due metri di raggio, e anche chiusa non è che la puoi stipare tra il divano e il comò. Il suo spazio in un ambiente se lo prende d'imperio, un pezzo del genere, certo non è fatto per il monolocale della nonna.

Di nuovo, da un estremo all'altro, Travaglini. Sdoppiato, schizzato? Cos'è che fa stare insieme gli estremi? Un meccanismo progettuale, risponde lui, i cui perni sono «poliedricità nelle funzioni dell'oggetto, manualità nel suo sviluppo, cura dei più minuti dettagli tecnici nella realizzazione, fluttuazione e molteplicità dei punti di vista nella sua fruizione». E, vedremo perché, illusione.

LE MANI IN PASTA
«Mio padre è tuttora convinto che io faccia il fabbro, e un po' anche il falegname e l'elettricista: ingegnere strutturista in una famiglia dal bisnonno capomastro e il nonno architetto, non si dà pace a vedermi sempre intento a tagliare e saldare», dice Travaglini fra il tornio, il tagliatubi, lo smerigliatore e il piegaplastica del suo atelier-laboratorio, cortile condiviso con una “cappellaia matta” che acquistate in un mercatino mille teste in legno produce da quelle forme estrosi copricapi stile Novecento; «ma io non saprei fare il designer senza sporcarmi le mani, sperimentare in corsa come posso semplificare un oggetto, apportare correzioni a metà percorso come facevano i vecchi artigiani anziché affidarmi totalmente alla matematica calcolata in automatico da programmi pure fantastici, saggiare non solo in simulazioni la reazione a sollecitazioni di forza o calore di un materiale, metallo plastica vetro o legno che sia. E anche i relativi odori».

Da quest'impianto mentale, in base al quale in un progetto è il dettaglio tecnico che fa la differenza, discende un rapporto assai stretto tra il designer Travaglini e tutta una rete di piccole imprese dell'hinterland bolognese; quel tessuto di fabbriche, spesso a conduzione familiare e con appena una decina di dipendenti, ma tecnologicamente avanzatissime che, se sono sopravvissute alla crisi, si ritrovano oggi di nuovo piene di ordini, leva di una ripresa economica faticosamente abbozzata. Al Triangolo, zona industriale di Bargellino fuori Bologna, core business stampi per pezzi dei motori di camion, Travaglini arriva con il complicatissimo e un po' folle progetto della StratoSfera, che se sbagli di un decimo di millimetro il meccanismo non funziona; fa la spola, segue tutte le fasi, riprende ogni passaggio con la sua telecamerina, studia con loro e avalla le modifiche che gli suggeriscono per rendere l'oggetto più resistente. Andirivieni tra studio e fabbrica, per la seduta a pistoni Metropoli e per le lampade a forma di calla, anche con la Dmz di Ozzano dell'Emilia, officine meccaniche di precisione. Non sapeva come fare, invece, per produrre la serie di tavolini Tubo: valli a schiacciare e ovalizzare, quei grandi tubi tondi di alluminio, tagliarli e inserirvi i piani di policarbonato trasparente. «Allora ho chiesto a Giancarlo Piretti, l'inventore della seggiola Plia per Castelli esposta anche al MoMa, classe 1940 ma scatenato come un ragazzino. In vari incontri ha passato al vaglio ogni minuta specifica tecnica del mio progetto, e solo alla fine mi ha girato alla Intermobel di Longare nel vicentino». La stessa che gli ha prodotto le lampade Tubino, a scala, cubo, lancia, piramide, assai eleganti.

COME NASCE UN'IDEA
La passione travaglinesca per la manualità ha finito per contagiare anche la sua compagna nonché collaboratrice Alessandra Silvestri: che dagli avanzi spezzati di un prototipo di lampada ha cominciato a inventarsi un gioiello dopo l'altro, intarsiando strass e pietre colorate, sperimentando con acciaio e alluminio, imparando infine a saldare. Ha appena esposto la sua prima collezione, vernissage nell'atelier Travaglini, ovviamente.

Ma, prima di sporcarsi le mani con tubi e tornio, come nasce un'idea? Non c'è solo il procedimento classico, alla sellino di Castiglioni. Per Travaglini, che architetto lo è diventato innamorandosi delle piramidi Maya nel viaggio di formazione post-liceo, e che da studente sognava “da grande vorrei fare Frank Gehry”, varie sono le suggestioni che innescano l'invenzione, «e possono provenire dall'anatomia come dalla fisica, dalla geometria impossibile di un quadro di Escher come da una tela di Lucio Fontana».

Fontana, certo. Quel taglio nella tela, dice, nella sua semplicità estrema nasconde e svela un mondo. Così l'ha replicato in tre tavoli Cut, base in lastre d'acciaio lucidato e curvato, vetro che come la tela s'incurva all'interno e crea una zona d'ombra, taglio calcolato in modo che se in quel punto ci appoggi un bicchiere non casca né si versa. Pezzi, dice, pensati per produzione in serie, vedremo se accadrà. Dal quadro al corpo: Schiena, un altro dei pezzi di Travaglini più ripresi da riviste e siti internazionali, è una libreria, a muro o poggiata a terra, costruita come una colonna vertebrale e come questa con le vertebre-piani che si spostano e s'inarcano a seconda dei movimenti, al pari di un corpo ora diritto ora variamente arcuato: luci dietro ogni piano disegnano coni mutevoli a seconda della distanza dal muro. Fluttuazione e idea di movimento segnano ugualmente l'alto portariviste Onda: «Riproduce il movimento rotatorio e insieme trasversale di un'onda quando si frange, la stessa sinuosità che disegna un surf quando vi scivola sopra».

GASTEL, ELOGIO DELLA SOTTRAZIONE
A intrigare Giovanni Gastel, il grande fotografo di moda e still-life, dev'essere stata proprio questa centralità per Travaglini dell'idea di movimento, il continuo spiazzarsi dalla fissità di un oggetto facendolo variamente interagire con l'ambiente attraverso luci e diverse posture delle singole parti; insieme al comune gusto dell'essenziale, minimalista se si vuole, «il partire da un'idea e sottrarre, finché resta lo stile puro», dice Gastel, nelle cui foto, anche le più ardite, non c'è mai qualcosa di troppo, una stonatura in eccesso nella composizione. Sta di fatto che un paio d'anni fa, dovendo individuare per una mostra otto giovani clou per altrettanti settori (industria, moda, cibo et cetera), per il design Gastel sceglie Travaglini, lo ritrae con la chioma riccia al vento che pare un attore di Hollywood, e da allora progetta con lui i suoi stand al Fuorisalone, mettendoci foto sue: dalle ninfe che rimandano alle lampade serie Amadriadi fino ai nudi in movimento come nelle lanterne magiche d'antan, che richiamano anch'essi gli oggetti del nostro, in movimento vero o apparente. «Come una foto ha bisogno di chi la guarda e reinterpreta, così l'oggetto di design richiede di essere ricreato da chi lo vede, lo compra, lo usa», spiega Gastel; «questo ti fa amare la foto che hai visto come l'oggetto che hai comprato. E' ciò che accomuna me e Pietro, e rende il nostro lavoro complementare quando in un'immagine reinterpreto il suo lavoro secondo i miei canoni».

L'ILLUSIONISTA
Fluttuazione della percezione, bene. Ma dicevamo qualcosa di più. Illusione. Spiazzamento. Figure impossibili. «Sono sempre stato affascinato da illusionisti e prestigiatori», confessa Travaglini, «dai giochi di specchi che ti mostrano una testa mozzata parlante, da come l'illusione sia alla base del nostro vivere. Il punto di vista determina e modifica il significato stesso delle cose che guardiamo, rendendo possibile e reale anche ciò che non lo è». E Impossibile è appunto il nome sia di un tavolo sia di una serie di sue lampade. Niente fronzoli né virtuosismi. Forme pure. Design duro, essenziale, all'osso, dove non c'è più niente da togliere se vuoi che tavolo e lampada stiano in piedi. E il nome non è una suggestione buttata lì per alludere e intrigare: l'incastro apparentemente incongruo di sei tubi (che reggono il piano nel caso del tavolo o, con la luce a led inserita a striscia all'interno, costituiscono la lampada) è con precisione la figura del quadrato impossibile. Presente Escher? Ecco, quello. In un'altra versione della lampada cui sta lavorando ora, la figura è quella del triangolo impossibile, simulato in tre dimensioni, purché tu quei tre tubi ad angolo li guardi dal punto di vista che fa scattare l'illusione: il riflesso della luce e l'eventuale collocazione a parete sono studiati per indurre a questa particolare visione. Lo spazio prende senso dalla dinamica che lo anima. «Come per i tagli di Fontana. Come nei lavori di quell'altro fantastico illusionista di Anish Kapoor, l'assoluta semplicità di un buco scavato in un blocco di pietra che in un breve istante ha il potere di stordirti e straniarti». Una chiosa: il punto di vista determina i significati plurimi di un oggetto, ma vale anche il contrario. Sostiene Travaglini che «il gioco dell'illusione ti allena a cercare prospettive diverse sulle cose». Quando gli oggetti che ci circondano ci inducono a moltiplicare i nostri punti di osservazione sulla realtà, è un buon contravveleno alla galoppante uniformizzazione del pensiero, del consumo, dei comportamenti predefiniti dalle tecnologie come dai social. E anche questa è funzione sociale del design.