Dieci milioni di dischi venduti. Cinque Grammy Awards. Un cd e un tour in arrivo. La più grande cantante lirica italiana si racconta e suggerisce: «Apriamo i teatri! Facciamo rivivere i palcoscenici piccoli, di provincia, oggi abbandonati. Offriranno grandi chance ai giovani cantanti». E sulla Callas dice: «Lei non interpretava, “era” il personaggio»
Il raffinato “Telegraph” l’ha paragonata a Maria Callas. Il più prosaico “Newsweek” a un primo piatto («Il migliore prodotto di esportazione italiana dopo il risotto»). Se, in occasione del recente anniversario della morte di Pavarotti, in molti si sono domandati chi ne sia, in Italia, l’erede, gli oltre dieci milioni di cd e dvd venduti e i cinque Grammy awards vinti non lasciano dubbi: c’è, è declinato al femminile, ed è
il mezzosoprano Cecilia Bartoli. Ma con una sostanziale differenza: mentre Big Luciano pescava il suo pubblico, oltre che con le sue straordinarie interpretazioni operistiche, con iniziative non esenti dal Kitsch (i vari concerti dei “Tre Tenori” e, soprattutto, quelli con i famigerati “Friends” provenienti dal mondo della musica leggera),
Cecilia Bartoli ha sempre puntato sull’alto livello delle sue operazioni culturali.
Nei paesi di lingua inglese le classificano sotto il genere
“High quality hit”: brani musicali apprezzati dal vasto pubblico, ma con la caratteristica di essere di alta qualità. Così la cantante, diversamente da un Bocelli, è riuscita a coniugare l’elogio di buona parte della critica di spessore con l’ampio successo fra i non addetti ai lavori. Ciò che infallibilmente accadrà anche con l’uscita del suo nuovo album, a inizio novembre, “Dolce duello”, che la vedrà protagonista insieme alla violoncellista Sol Gabetta. Il disco sarà seguito, a partire dal 23 novembre, da un tour europeo che riproporrà gli stessi brani interpretati nelle più prestigiose sale di Amsterdam, Bruxelles, Londra, Parigi, Monaco, Vienna, Praga e Berlino. Manca l’Italia, perché, come ha scritto “La Stampa”, «SuperCecilia è la cantante lirica forse più famosa del mondo e la meno scritturata in Italia». Di questo e di altro parla l’artista, in esclusiva, con L’Espresso.
Le chiediamo innanzitutto della collaborazione con la celebre violoncellista argentina Sol Gabetta, prendendo spunto da una famosa frase del suo grande collega Mstislav Rostropovic: «Mi innamorai del violoncello perché mi ricordava una voce: la mia». «Ho sempre amato la sensualità del suono di questo strumento», spiega la Bartoli: «Ci sono delle evidenti affinità con la voce del mezzosoprano: ad esempio il colore scuro, più ambrato, caldo, rispetto a quella del soprano. Con Sol ci conosciamo da diversi anni. È venuta spesso ad ascoltarmi ai miei concerti, e io ho fatto altrettanto. Un giorno le ho detto: “Dobbiamo fare qualcosa insieme”. Ne era entusiasta. Ma dovevamo pensare a un repertorio adatto. Chiesi perciò a un musicologo di trovarne uno per voce, violoncello obbligato e orchestra. Quando ci portò i brani presenti nel disco, dissi a Sol: “Ascolta che musica bellissima!”. Ne fu sorpresa e conquistata. L’abbiamo studiata e abbiamo realizzato questa incisione con la Cappella Gabetta diretta da Andres, suo fratello».
Il cd Decca comprende brani di Domenico Gabrielli, Vivaldi, Händel e Boccherini, con due di Caldara e uno ciascuno di Porpora e Albinoni alla loro prima registrazione assoluta. Perché questo titolo, “Dolce duello”? «Perché
le arie più melanconiche sono caratterizzate da dolcezza, sensualità e liricità. Diversamente dal “duello” vocale tipicamente barocco, che iniziava al suono della tromba, dando avvio a una tenzone infuocata. I compositori di queste opere richiedevano ai loro solisti svariate qualità, esigendo un eguale impegno sia da parte del cantante che dello strumentista, ingaggiandoli, appunto, in un amichevole duello».
Fin dagli albori del barocco voce e violoncello furono compagni inseparabili, sia che comparissero insieme per motivi pratici, con il violoncello a svolgere la funzione di basso continuo, o per finalità espressive. Il suono del violoncello è da sempre considerato elegante complemento a quello della voce umana, ma quando vengono messi l’uno contro l’altra accade qualcosa di straordinario: il violoncello spinge la voce ai suoi limiti fisici, mentre chi canta pretende un’emozione pura da parte di legni e corde degli strumenti che l’accompagnano. Altri duelli si svolgevano in quell’epoca. Gli uomini della strada potevano risolverli a suon di scazzottate, ma i gentiluomini si sfidavano in schermaglie ritualizzate. Erano spesso battaglie puramente simboliche, laddove il combattimento era mirato a ferire l’orgoglio più che la persona.
Fu un uso che assorbì un significato di precisa comunicazione sociale «e si estese al teatro lirico dove, come descrive vividamente lo storico della musica Charles Burney,
le contese fra solisti trasformavano non solo il modo in cui veniva eseguita la musica, ma anche come questa veniva scritta», spiega la Bartoli, «ciò che un tempo era stato un duetto diveniva ora un duello, uno scontro musicale sulla capacità di mantenersi superiore all’altro, spingendo cantanti e strumentisti a nuove altezze di virtuosismo, lottando l’uno contro l’altro non a suon di colpi, ma con la bellezza».Questa sorta di duello raggiungeva la sua forma più spettacolare quando il cantante entrava in competizione con lo strumentista: le corde vocali contro l’ancia di un oboe, il torso metallico di una tromba, il titillare irrequieto del clavicembalo, il panciuto corpo ligneo di un violoncello. «Queste spettacolari arie di Scarlatti, Händel, Bach e dei loro contemporanei invitavano il cantante e lo sfidante a un vicendevole scambio, esigendo una maggiore velocità e precisione da parte della voce e una maggiore finezza espressiva e afflato emotivo da parte di chi suonava», prosegue la Bartoli.
“High quality hit”, dunque.
Cecilia potrebbe esibirsi in concerto ai popolari Proms di Londra o nella più raffinata sala del Musikverein di Vienna e otterrebbe il medesimo successo. «Per carità: io dico sì al repertorio consueto, sono la prima a essere ben felice di eseguirlo, però amo indagare le radici, da dove vengono certi compositori e chi li ha ispirati. Questo permette di recuperare tanta musica che a suo tempo fu popolare, ma che oggi è meno conosciuta. Prendiamo ad esempio Händel: con l’avvento del Romanticismo e del Verismo cadde in oblio e per tutto l’Ottocento, fino al 1920, fu dimenticato. Poi, per merito di alcuni compositori, da quella data ai giorni nostri è ritornato in auge, grazie anche agli studi filologici e agli strumenti d’epoca che hanno segnato la rinascita del barocco». Inevitabile chiederle quale sia il suo concetto di crossover. «Consiste nel riuscire ad attraversare il famoso “ponte”, ovvero attirare lo spettatore verso quello che sai fare meglio, il repertorio che è più affine alla tua vocalità e sensibilità. C’è un pubblico che adora il barocco, il belcanto, il periodo classico. Un certo modo di eseguire questa splendida musica riesce ad andare incontro ai suoi gusti». Molto dipende anche dalla simpatia dell’interprete. «Sì, ammetto che influisce. La musica in ultima analisi è una raffinata forma di dialogo con gli altri. Se, come interprete, hai passione, energia ed entusiasmo, riesci a trasmettere queste doti al pubblico, che le rilancia. È come se fossi portatore positivo di uno scambio di energia».
Ma la Bartoli non è “solo” una cantante.
Si potrebbe definire anche una manager culturale con la responsabilità dei programmi del prestigioso Festival di Pentecoste di Salisburgo. «Ne sono molto orgogliosa. Dopo sei anni, mi hanno rinnovato il contratto fino al 2021. Prima di me questo ruolo era stato ricoperto solo da direttori d’orchestra. L’ultimo dei quali, Riccardo Muti, mi ha aperto la strada riguardo alla riscoperta della Scuola musicale napoletana. Nella prossima edizione il tema del festival sarà la data del 1868. Perché? Perché in quel fatidico anno avvenne la morte di Rossini, che ricorderemo con la messa in scena della sua “L’Italiana in Algeri”, dove debutterò nel ruolo di Isabella. Sempre nel 1868 c’era stata la prima delle opere “I maestri cantori di Norimberga” di Wagner e “La Périchole” di Offenbach. E furono portati a termine il Primo concerto per violino di Bruch e il Concerto per piano di Grieg. A ricordarceli ho invitato artisti come Barenboim, Kaufmann, Schiff e Minkowski».
Sempre a Salisburgo nel 2013, la Bartoli ottenne un grande successo con la sua
“Norma” di Bellini, eseguita con strumenti antichi, diapason a 430 Hz e organico ridotto, dove dominavano il colore chiaroscuro e i tempi spediti. Lei vi cantava nel ruolo del titolo, spogliando la parte di tanti orpelli e gesti retorici che vi si erano sedimentati nel tempo, attualizzando un personaggio più vicino a noi di quanto lo fosse nelle interpretazioni storiche, pure magnifiche, di una Callas o una Sutherland. «
Il Festival di Salisburgo è ora diventato il Festival di Cecilia Bartoli», scrisse l’“Herald Tribune”. «Fu un tale successo, che in seguito abbiamo portato “Norma” in tournée. E adesso me la chiedono anche a New York. Il motivo? Ne abbiamo presentata una rinnovata visione, dal punto di vista musicale e delle vocalità. Abbiamo cercato di ricreare il cast originario che aveva approntato Bellini per la prima assoluta, dove Norma era Giuditta Pasta, che cantava tutti i ruoli scritti da mezzosoprano, mentre noi siamo cresciuti con le grandi Norme portate in scena dai soprani. E il ruolo di Adalgisa era interpretato da una giovanissima Giulia Grisi che allora aveva vent’anni, un soprano quasi leggero, che poi fu la prima Norina in “Don Pasquale”».
Ma la Bartoli non si è accontentata di conquistare Salisburgo. Prendendo a modello la settecentesca corte degli Esterhazy,
ha creato un’orchestra per il Principato di Monaco. «Un progetto già pensato per San Pietroburgo, dove tanti musicisti italiani furono invitati dall’imperatrice Caterina la Grande a scrivere musica per il suo entourage. Mi sono detta: sarebbe bello avere un rapporto con una corte culturalmente illuminata, interessata a creare un’orchestra con strumenti d’epoca. Sapevo che i principi Alberto e Carolina erano molto amanti dell’opera, della musica e del balletto. Conoscendo il sovrintendente dell’Opera di Monte Carlo Jean-Louis Grinda, gli avevo anticipato il mio desiderio e il mio progetto, che poi il principe Alberto ha accolto favorevolmente. Sono nati così Les musiciens du Prince, ensemble con il quale quest’anno abbiamo presentato a Salisburgo l’ “Ariodante” di Händel ».
Perché la sua fortuna artistica se l’è trovata fuori dall’Italia? «Torno spesso nel mio paese, dove ho ancora parenti e amici. Perché vivo buona parte dell’anno lontana da Roma? Più che altro fu a suo tempo una scelta dovuta al repertorio: soprattutto da giovanissima ero più legata a quello classico e a quello barocco. Non ero la tipica cantante che allora da noi andava per la maggiore, che privilegiava il Verismo e una certa maniera di eseguire Puccini e Verdi». E c’è un altro motivo per il quale da noi la vediamo piuttosto raramente: i tempi di programmazione, solitamente nei teatri più famosi troppo a ridosso dell’evento, diversamente da quel che avviene nel resto d’Europa. «Un’osservazione veritiera. Però, intanto,
apriamoli questi benedetti teatri! Perché ce ne sono tanti più piccoli, importanti seppur di provincia, che oggi sono desolatamente abbandonati. Una volta davano una grande chance ai musicisti e ai giovani cantanti. Così, prima di arrivare nei palcoscenici più famosi, essi avevano la possibilità di cimentarsi per gradi. E vorrei approfittare dell’occasione per fare un appello ai politici italiani: investano di più nell’arte e nella cultura, salvino i gioielli della nostra storia».
Fra i direttori d’orchestra che la Bartoli ha frequentato particolarmente,
Daniel Barenboim. «Lo conosco da trent’anni. Se sono diventata la musicista e la cantante che sono è proprio grazie a lui, che mi indirizzò verso il repertorio mozartiano.
Mi fece un’audizione quand’ero ventenne e mi disse: “Signora Bartoli, deve assolutamente studiare Mozart, perché Mozart ha scritto per la sua vocalità”. So che il 15 novembre compie 75 anni e vorrei mandargli un messaggio: “Grazie Daniel, ti auguro tutto il bene del mondo. Sei una persona meravigliosa, una leggenda vivente, un mito e grazie a te sono diventata la musicista che sono”». E Nikolaus Harnoncourt. «Con lui ho scoperto un altro modo di fare e ascoltare la musica, altre sonorità. Mi avvicinò ancor più al repertorio barocco e me lo fece amare in maniera ancor più profonda. Con la sua meravigliosa orchestra del Concentus ci ha fatto conoscere tante partiture vivificate e rinvigorite dalla loro esecuzione con criteri filologici e con gli strumenti appropriati».
E
Georg Solti. «Indimenticabile un Requiem di Mozart nella Cattedrale di Santo Stefano a Vienna. Una musicalità, una pulizia, un ordine intellettuale tipicamente mitteleuropei». E
Riccardo Chailly. «Ricordo con piacere un grande Rossini al Comunale di Bologna. Fu la mia prima “Cenerentola”. E il “Turco in Italia”. Spero di tornare ancora alla “sua” Scala, magari con un’opera di Händel. E perché no al San Carlo di Napoli? Il più bel teatro del mondo, con un’acustica straordinaria».
La musica e i giovani. Lei crede nel Sistema Abreu? «Ha raggiunto risultati incredibili. Ne ho avuta prova lavorando a Salisburgo con l’Orchestra Simón Bolívar e il maestro Gustavo Dudamel, impegnati con me nel “West side story” di Bernstein. Fu la prima volta di un musical in quella sede storica. Mi sono divertita da morire: sono musicisti straordinari che hanno lo swing nel sangue». Cosa consiglierebbe a una giovane cantante che vuole diventare famosa come lei? «Innanzi tutto di non pensare alla celebrità.
Si fa musica perché si ama l’arte e stop. Tutto il resto, se viene, viene». Lei, che ha ormai raggiunto il grande successo, quante ore al giorno si esercita? «Ogni volta è una grande sfida e il lavoro è sempre nuovo, diverso. C’è sempre da imparare.
La voce, lo strumento, deve rimanere flessibile e per mantenerlo tale le mie ore di esercizio sono costanti. Prendo a esempio un grande tennista come Federer: anche lui è “arrivato”, è il più grande tennista del mondo. Però fa esercizi tutti i giorni per mantenersi in forma. E che forma!».
Fra gli exploit giovanili della Bartoli ci fu a Parigi una serata operistica di gala in omaggio alla
Callas. A quarant’anni dalla sua morte, cosa c’è rimasto di quella leggendaria cantante? «L’importanza, il
punto di riferimento nella storia del belcanto. E la ferrea disciplina, il nuovo modo di porsi sulla scena. Lei non interpretava, “era” il personaggio, anima e corpo. Lo dico sempre: non bisogna cantare, bisogna “essere” il ruolo che rappresenti. Ma vorrei ricordare, pressappoco nello stesso periodo, la
Joan Sutherland, che è stata un’altra grandissima. E
Montserrat Caballé».
Cantante, direttore musicale.
Ma se c’è un’altra virtù di cui la Bartoli va fiera è quella di cuoca. Le si illuminano gli occhi quando parla dell’apprezzamento che le ha tributato la guida gastronomica Gault Millau. «Da buona rossiniana non ho fatto altro che seguire le orme del Maestro pesarese. Raccontano le cronache che un suo ammiratore, vedendolo allegro e pacifico, gli chiese se non avesse mai pianto in vita sua. “Sì”, rispose Rossini, “una sera, in barca, sul Lago di Como. Si stava per cenare e io maneggiavo uno stupendo tacchino farcito di tartufi. Il tacchino mi è sfuggito di mano ed è caduto nel lago”». Davvero un grande godereccio. Se la Bartoli dovesse cucinare un piatto per Beethoven, sarebbe certamente più complicato. «Sicuramente ne dovrei ideare uno meno spumeggiante di quello rossiniano».
E per Mozart? «Impossibile associarlo a qualcosa di materiale. La sua musica è il balsamo dell’anima». Che hobby ha oltre alla cucina? «Ne ho tanti. Soprattutto quelli che hanno a che fare con la natura. Mi piace nuotare. Col nostro lavoro siamo spesso all’interno di edifici, anche se poi bisogna volare con la voce e con la musica, viaggiare verso altre dimensioni. Però nella realtà siamo quasi sempre circondati da quattro mura. E quindi, quando ho la possibilità di starne fuori, amo passeggiare, recuperare il tempo trascorso al chiuso. Per una cantante è fondamentale l’ossigeno, respirare bene». Ma non va a cavallo. Probabilmente per qualche timore legato alla memoria della grande collega Maria Malibran (ndr, morì in seguito alle ferite di una terribile caduta).
La sua vita piuttosto recente da coniugata? «Caspita è vero, mi sono sposata! Mio marito è svizzero, è cantante, lavora al teatro dell’Opera di Zurigo. Parla ovviamente benissimo l’italiano. Qualche suo piatto l’ho imparato. Il Rösti a esempio, a base di patate e cipolle: buonissimo. Non lo preparo bene come lui, però me la cavo. Sono una buona forchetta e per questo gli ho intimato: guarda che quando lavoro, tu a casa devi cucinare. E lui finalmente è in grado di cuocermi una salsa per gli spaghetti come si deve. Andiamo molto d’accordo. Fra le tante sue virtù, suona molto bene il violino. Con i miei genitori cantanti e mia sorella, corista al Teatro comunale di Piacenza,
un’intera famiglia dedita all’arte delle sette note». Quando si superano gli “anta”, cambiano le prospettive? «Penso di averne diciotto con trentadue d’esperienza», sorride. E il pensiero della morte? «Quando verrà, io non ci sarò». Ma come, lei, nata nella cattolicissima Roma, con un nome sacro come quello di Cecilia, parla come un’epicurea? Ricorda certi personaggi di Anna Magnani. «Non s’illuda, la Magnani “è” la donna romana per antonomasia. Dopo la Lupa c’è lei. Anzi, riflettendoci meglio, lei è la Lupa».