Fernando Aramburu: "Ecco perché è tornata l'ossessione della patria"
Divide, separa, genera odio. È un legame e una maledizione. Eppure domina la nostra epoca. Ne abbiamo parlato con lo scrittore basco che al tema ha dedicato il suo ultimo romanzo. E che dice: "In Catalogna aleggia ?l’ombra di una tragedia collettiva. Gli intellettuali spagnoli hanno visto la democrazia in pericolo"
"Euskal Herria" è parola intraducibile, in lingua basca vuol dire insieme il luogo e il popolo basco, il legame che non si può scindere tra la terra e la comunità che lo abita. Patria, dunque, è al tempo stesso "aita" e "ama", papà e mamma, è appartenenza assoluta, come la famiglia, ma anche tragedia, maledizione.
Sembrava un residuo del romanticismo ottocentesco, destinato a essere spazzato via, invece la patria è la protagonistaanche tragedia, maledizione. Sembrava un residuo del romanticismo ottocentesco, destinato a essere spazzato via, invece la patria è la protagonista della nostra epoca, di Stati senza territorio, di territori senza Stato.
Alla patria basca Fernando Aramburu ha dedicato il suo romanzo, un caso letterario in Spagna nel 2016, pubblicato in Italia da Guanda, ambientato negli anni del terrorismo separatista basco dell’Eta che ha provocato 829 morti tra il 1968 e il 2011, quando fu dichiarato il cessate il fuoco. Oggi è la Catalogna a rivendicare la sua identità e indipendenza, nel cuore dell’Europa senza radici e dunque senza futuro. Aramburu traccia un affresco epico, in cui la patria è ciò che unisce e ciò che divide, quel che separa i padri dai figli, le mogli dai mariti, gli amici dagli amici. Perché non esiste un solo modo di vivere un sentimento, che sia l’amore o l’odio: nel romanzo di Aramburu l’imprenditore Txato, ucciso perché rifiuta di pagare il pizzo come contributo alla causa separatista, la moglie Bittori, i figli Nerea e Xabier, si dividono dalla famiglia di Joxian e Mirien, che ha il figlio Joxe Mari in carcere come terrorista irriducibile. Ogni persona è una patria. E ognuno lotta per essere letto nella sua unicità.
Il suo romanzo parla di legami: la famiglia, gli amici, la terra. Euskal Herria: il paese e il popolo basco. La patria è un valore? È un’appartenenza? O è anche una condanna? Una maledizione che impedisce di vivere le relazioni con gli altri riconoscendosi semplicemente come persone? «La patria non è un concetto con un unico significato. Cambia da una persona all’altra, da un paese all’altro. C’è un’accezione amabile della patria da cui nessun essere umano capace di socialità è dispensato. È quella che professiamo per il luogo in cui è trascorsa la nostra infanzia, in cui abbiamo imparato le lettere e i numeri, in cui ci possiamo connettere emotivamente con certi paesaggi, da cui provengono i nostri antenati o la squadra di calcio le cui vittorie ci rendono felici. Il problema nasce quando sacralizziamo la patria, discriminiamo in suo nome, cerchiamo di imporla ad altri o la prendiamo come pretesto per commettere delle atrocità».
Che significa amare la propria terra? Nel suo romanzo ogni personaggio ha la sua idea di patria, diversa da quella degli altri. «Posso parlare soltanto per me. Amo tranquillamente la mia terra natale, ma nessuno mi vedrà inalberare una bandiera o chiedere muri e frontiere. La vita è breve. Non è nostra nemmeno la terra in cui ci seppelliranno».
Miren dice al marito Joxian: «Non si tratta di buone o cattive persone. È in gioco la vita di un popolo. Siamo abtertzale o cosa siamo?». Cosa significa essere patrioti? «Nel caso di Miren, madre di un terrorista, il patriottismo non è altro che la giustificazione fanatica delle azioni del figlio, il che ai suoi occhi rende il figlio un eroe, mentre per lei le vittime si meritano ciò che è accaduto».
La patria unisce. Ma la patria divide, anche. Lei racconta come il terrorismo basco abbia separato le famiglie, madre da figlia, marito da moglie. In queste settimane la Catalogna è lacerata tra unionisti e indipendentisti. Quant’è profonda questa spaccatura? «Ho parlato con amici catalani. Sono tutti molto preoccupati. Il clima sociale è molto polarizzato. Alcuni, che fino a ieri erano amici, oggi non si salutano a causa delle loro diverse convinzioni politiche. Altrettanto accade in numerose famiglie. Molta gente preferisce non parlare di politica. Nelle strade della Catalogna aleggia l’ombra di una tragedia collettiva».
Guerra civile è espressione che viene sempre in mente quando si parla di Spagna. È un’eredità ancora presente? È un’immagine che si può usare a proposito del paese basco o della Catalogna? «Il termine “guerra civile” mi pare esagerato. Non lo ritengo valido per spiegare ciò che accade attualmente in Spagna. Non si scorgono movimenti di truppe e per il momento, fortunatamente, non c’è violenza. Nei Paesi Baschi c’è stato terrorismo. È terminato nel 2011 e da allora i baschi vivono abbastanza tranquilli».
Uno dei temi del suo libro è la violenza che disumanizza le persone rispetto a un’idea totalizzante. Lei racconta di Joxe Mari in prigione, il suo disprezzo per chi cede, per chi si dissocia dalla lotta armata. Entra in profondità nella testa di un terrorista. In Italia negli anni Settanta la motivazione pubblica delle Brigate rosse era l’ideologia. Per un terrorista dell’Isis è la radicalizzazione religiosa. Ma è davvero così? O alla base di tutto c’è l’odio e chi lo accende? «Secondo me, l’odio è soltanto un aspetto. Al violento, l’odio è utile perché lo aiuta, da un lato, a riempirsi di rabbia, dall’altro a disumanizzare le proprie vittime. Però non dobbiamo dimenticare che nella violenza organizzata ci sono calcolo, metodo, ragioni, obbiettivi e affari. Il terrorismo è molto più razionale di quanto alcuni pensano. Può darsi che il jihadista suicida che s’immola tra la folla sia offuscato dall’odio. Tuttavia, i cervelli nell’ombra che approfittano della sua radicalizzazione sanno benissimo cosa stanno facendo».
Lei ha raccontato che “Patria” nasce dalla sua esperienza personale, il suo incontro con l’Eta. C’è stato un momento in cui è stato attratto dalla lotta armata? E quali sono state le sue ragioni per non aderire? «Non sono mai caduto nell’abisso della lotta armata, e di questo sono enormemente grato al ragazzo che sono stato. I miei genitori mi hanno educato nell’affetto. In giovane età, i libri e l’arte hanno aperto davanti a me un orizzonte di umanesimo e hanno incentivato il mio desiderio di viaggiare, conoscere altri mondi, abbracciare altre culture. Sono, per di più, cresciuto in una città, il che protegge molto dalla pressione dei gruppi ideologici. La violenza non è mai stata un’opzione per me. Lo è stata invece per altri ragazzi della mia scuola o del mio quartiere. Più d’uno è finito in carcere».
Quanto era diffusa l’area dei simpatizzanti verso l’Eta? E oggi quanto rimane estesa? «Non si può escludere che siano rimasti alcuni nostalgici dell’Eta, ma sono pochi. Alla fine i baschi hanno capito che fuori dalla democrazia non c’è convivenza nella pace. La violenza è scomparsa dalle strade dei Paesi Baschi, non così il progetto che i violenti avevano cercato di imporre con la forza. Il loro peso elettorale è ancora considerevole, soprattutto nei municipi delle zone rurali».
Il successo del suo romanzo in Spagna nell’anno più complicato, in cui l’unità nazionale è stata messa in discussione, dimostra che il sentimento patriottico si è fatto più forte, o più debole? «Il patriottismo spagnolo si è trascinato dietro fino a poco tempo fa la macchia del franchismo. I colori della bandiera sono gli stessi di quando c’era Franco. L’inno nazionale è lo stesso. Per molti spagnoli è faticoso identificarsi con quei simboli e con l’idea dell’orgoglio spagnolo. In conseguenza della crisi catalana, però, molti stanno superando queste riserve. Difatti, ultimamente in Spagna si vedono di nuovo scene di patriottismo esacerbato».
In passato si contrapponeva la Catalogna, pacifica e in regime di autonomia concordata con Madrid, ai Paesi Baschi in cui c’era il terrore. Oggi invece lei dice che l’ombra della tragedia si è spostata a Barcellona. Perché sta accadendo? «I popoli possono essere dominati per mezzo del terrore o della speranza. I politici nazionalisti catalani hanno scelto la seconda opzione. Per anni hanno indottrinato alla causa nazionalista i bambini nelle scuole e si sono dedicati intensamente a erigere un miraggio utopico. Hanno creduto che con uno stratagemma dall’apparenza democratica avrebbero raggiunto il loro obbiettivo, basandosi su una graduale rottura istituzionale, sulla forza dei fatti compiuti e sulla fiducia che la popolazione sarebbe scesa in piazza. La realtà ha dimostrato che i politici nazionalisti catalani hanno agito avventatamente. Il frutto non era ancora maturo».
Lei, come quasi tutti gli intellettuali spagnoli, si è schierato contro l’indipendenza della Catalogna, mentre fuori dalla Spagna si sono avvertite voci di simpatia verso i catalani e di dura critica verso il governo Rajoy. Come lo spiega? «È possibile che fuori dalla Spagna si sia diffuso il mito romantico del popolo che aspira alla propria liberazione. Quel popolo non è così omogeneo come qualcuno vuole credere. Numerosi intellettuali spagnoli hanno visto la democrazia in pericolo e si schierano pubblicamente per la Costituzione e lo Stato di Diritto. Questo non ha impedito loro di sollecitare il dialogo e qualche tipo di soluzione politica».
L’indipendentismo catalano può riaccendere il nazionalismo basco? «Soltanto se il nazionalismo catalano raggiungesse il suo obbiettivo massimo. In tal caso, il nazionalismo basco non tarderebbe neanche cinque minuti a reclamare la stessa cosa».
Tornando a “Patria”, Mario Vargas Llosa ha scritto che il suo romanzo si svolge nel «país de los callados», il paese dei silenziosi, degli omertosi. In particolare c’è don Serapio, il prete nazionalista che invita i fedeli a tacere: «Dio ci ha assegnato la missione cristiana di difendere la nostra identità, la nostra cultura, la nostra lingua». A me ha ricordato la mafia: il pizzo, le minacce, le intimidazioni, le scritte sui muri, l’isolamento. E poi il silenzio, l’omertà, la solitudine in cui si trova la famiglia del Txato. Infine, la morte. Anche la mafia si cela dietro i legami di sangue e territoriali. «Non sono molto esperto sul funzionamento della mafia. Mi sono limitato a scrivere su ciò che conosco: sul silenzio della paura e su quello della complicità, sui meccanismi di controllo del popolo basco e sul ruolo di coloro che hanno accesso alle coscienze degli abitanti, come don Serapio, il parroco del paese».
Un tema centrale di “Patria” sono le vittime. «Tutto il mio corpo è una ferita, se alla fine mi rimanesse una cicatrice sarebbe come quella di chi si è interamente bruciato», dice la vedova di Txato Bittori alla figlia Nerea che vorrebbe spingerla alla riconciliazione. Nella scena in cui c’è la celebrazione delle Giornate delle vittime mi ha molto colpito il clima di vergogna, Xabier si siede in ultima fila e osserva gli altri presenti, fino a riconoscere sua sorella. Chi sono e cosa chiedono le vittime? «Per lunghi anni le vittime del terrorismo hanno vissuto nell’abbandono. Essere una vittima era una piaga. Venivano ritenute colpevoli del loro destino “Qualcosa avranno fatto”, si diceva, nella convinzione che l’Eta agisse in nome del popolo basco e il popolo, secondo alcuni, non sbaglia mai. Ci sono articoli molto tristi sui funerali delle persone assassinate a cui partecipavano in pochissimi. Conosco diversi casi di madri che hanno nascosto ai figli piccoli i veri motivi della morte del padre. Lo facevano per proteggerli da un possibile trauma, per non farli crescere nell’odio o per non essere segnati a dito a scuola o per strada. Le assicuro che ciò che racconto in “Patria” non si discosta nemmeno di un millimetro dalla realtà».
Don Serapio chiede a Bittori di mettere via «il risentimento». Le ferite non vanno riconosciute? Anche in Italia, i parenti delle vittime del terrorismo, della mafia, delle stragi senza giustizia degli anni Settanta sono spesso visti come soggetti fastidiosi. Oggi penso ai genitori di Giulio Regeni. Quanto sono scomode, quanto danno fastidio le vittime? «Le vittime danno fastidio soprattutto a chi ha una cattiva coscienza e a chi è alla ricerca di una narrazione favorevole al nazionalismo. Un esempio. L’associazione delle vittime Covite ha messo targhe in ricordo degli assassinati nella mia città natale, San Sebastián, e il Comune le ha fatte subito togliere. Non si agisce nello stesso modo con i manifesti e i cartelli in sostegno ai detenuti dell’Eta».
C’è un capitolo che si intitola: «Svuotare la memoria». «A noi vittime rinfacceranno che ci rifiutiamo di guardare al futuro. Diranno che cerchiamo vendetta», si dicono Xabier e Nerea. La memoria aiuta alla riconciliazione? O è un ostacolo? «La funzione della memoria è puramente e semplicemente quella di fissare il ricordo. Si suppone che coloro che potrebbero riconciliarsi abbiano vissuto la storia che li ha messi gli uni contro gli altri e che la ricordino. La memoria è il deposito della Storia, dunque lo spazio al quale potranno far ricorso le generazioni del futuro per sapere cosa è accaduto, perché è accaduto e chi è stato coinvolto».
«Un giorno non molto lontano, in pochi ricorderanno quello che è successo», discutono i fratelli Xabier e Nerea nelle pagine finali di “Patria”. «Non farti cattivo sangue. È la legge della vita. Alla fine, vince sempre l’oblio». «Ma non c’è motivo per cui dobbiamo diventare suoi complici». Cosa vuol dire non dimenticare? «Alla fine vince sempre l’oblio. È una legge naturale del tempo. Dimenticare, per la vittima, è come stracciare l’ultima foto. Dopodiché, non resta nulla. È come se ciò che è accaduto non fosse mai accaduto. Si chiude così ogni possibilità di riparazione e di giustizia. E tutto questo mentre, a volte, l’aggressore e i suoi complici se ne vanno tranquillamente a passeggio per le strade».
Nella pagina finale c’è un abbraccio, senza parole. Perdono è una parola più forte di riconciliazione. Lei crede al perdono, alla possibilità di perdonare, e di essere perdonati? «Mi metto nei panni dell’uomo il cui padre è stato assassinato. Immagino l’assassino che ha pagato per il suo delitto con anni di prigione e viene da me e, guardandomi negli occhi, da soli, mi chiede perdono. Credo che lo abbraccerei e poi me ne andrei a casa a piangere. Sono convinto che, passate le lacrime, mi sentirei meglio; ma non si può pretendere da nessuno un comportamento come questo, tanto meno da chi ha tanto sofferto».