Da dieci anni è Thierry Frémaux a decidere i film in gara. Tra passioni e liti, amicizie e scontri. «Mi rimproverano per non aver scelto titoli italiani? Vorrei tanto che il mio amico Barbera, a Venezia, ricevesse le stesse rimostranze quando il cinema francese non ottiene riconoscimenti»
Dell’edizione 2017 di Cannes Thierry Frémaux, da dieci anni Delegato generale del festival, non dice nulla: per lui parlano i film scelti per la competizione e le altre sezioni. Sull’edizione scorsa, invece, ha raccontato tutto: lo ha fatto in una sorta di diario, pubblicato da poco in Francia, che inizia alla fine dell’edizione 2015 del festival e si conclude all’indomani della consegna dei premi dell’edizione 2016. Leggendo le 600 pagine di “Sélection officielle” (Grasset), scopriamo un uomo appassionato e appassionante, sensibile, sempre in movimento. E impariamo molte cose sul cinema internazionale.
Come le è venuta l’idea di questo libro? È un modo per mettere a tacere le malelingue, per le quali i vincitori di Cannes sono già decisi prima ancora che il festival inizi? «Non ho scritto questo libro “contro”, ma “a favore di”. Mi è venuta voglia di parlare del Festival di Cannes da dentro, di descriverne l’iter, di spiegare che si tratta di un impegno collettivo che coinvolge lo staff vero e proprio e tutti gli artisti, i professionisti e i giornalisti che fanno di Cannes il festival del cinema più importante del mondo. Il mio libro è anche un mezzo per lasciare un segno: ormai, sono più di quindici anni che lavoro a Cannes e dieci che sono Delegato generale. Per me il libro è stato quindi una buona occasione per riflettere un po’ sul cinema, sul mio mestiere e sulla vita che conduco».
Nel 2001, quando è diventato direttore artistico, il film che vinse la Palma d’oro fu “La stanza del figlio” di Nanni Moretti. Quando lei scelse quella pellicola ne rimase impressionato. Il 31 dicembre 2015 con sua moglie ha deciso di rivederlo e in seguito ha detto di averlo fatto «per vedere se era superato». Che cosa intendeva dire? «“La stanza del figlio” ci aveva sconvolto. Ero già un grande ammiratore di Nanni Moretti e non ho mai dimenticato la presentazione a Cannes di “Caro diario” un film assolutamente straordinario. Nel mio libro dedico a Moretti alcune pagine, perché lo considero una delle grandi voci della storia del cinema. Nel mio primo anno a Cannes fu dunque fantastico che Nanni fosse in gara con un film come “La stanza del figlio”. Oltre a ciò, vinse la Palma d’oro: non avrei potuto desiderare inizio migliore. Alla fine del 2015, subito dopo aver consegnato il mio manoscritto, ho voluto rivedere quel film: ebbene, era sempre altrettanto bello! Quando mi chiedono di proiettare un film a piacere, spesso ne scelgo uno di Moretti».
Nel 2015, dopo l’annuncio dei film premiati, la stampa italiana ha usato parole molto dure nei confronti del festival. Nel suo libro lei paragona i titoli dei giornali a una finale di Champions League. Pensa che le critiche fossero giustificate? «Capisco benissimo che la critica italiana fosse furente per l’assegnazione dei premi. A livello personale, io avevo fatto il mio lavoro scegliendo tre film italiani in lizza. Una volta sulla Croisette, però, la scelta passa nelle mani della giuria. Commentare l’assegnazione dei premi è un gioco tanto interessante quanto inutile. Il palmarès è il frutto collettivo della riflessione di nove giurati. Se si forma una giuria differente, si ottiene un verdetto differente. I giornalisti fanno pronostici, le giurie scelgono: le due cose funzionano in maniera diversa. Quell’anno tutti davano vincente “Vi presento Toni Erdmann”, che invece non ottenne alcun premio, e tutti i tedeschi rimasero sconcertati. All’inizio questo tipo di reazioni mi terrorizzava, ora non più».
Nel libro lei ricorda che nel 2016 gli italiani le hanno rimproverato di non aver scelto nemmeno una loro pellicola. Ma la stessa cosa si è ripetuta quest’anno: stessa selezione, stessi rimproveri. Che cosa ne pensa? «È per questo che amo tanto l’Italia! È un paese di forti passioni e convinzioni. La Francia è più fredda, più cartesiana: vorrei tanto che il mio amico Antonio Barbera, a Venezia, ricevesse le medesime rimostranze quando il cinema francese non riceve riconoscimenti... In ogni caso, tutto questo dimostra che la stampa italiana ama il Festival di Cannes e ritiene importante quello che vi accade. Nel tempo l’Italia ha sempre mantenuto il suo status. L’anno scorso era assente dalla rosa dei film in gara, ma in giuria c’era Valeria Golino ed è stata una giurata fantastica. Il film di Stefano Mordini “Pericle il nero” proiettato per “Un Certain Regard” è stato una magnifica scoperta».
E quest’anno in giuria c’è Paolo Sorrentino, uno dei registi più affermati. Ma cosa pensa della giovane generazione dei registi italiani? Parlo di Valeria Adriano che nel 2013 ha ottenuto una menzione speciale con il suo cortometraggio “37,4”; di Alice Rohrwacher che dopo aver presentato nel 2011 “Corpo celeste” alla Quinzaine des réalisateurs è tornata ufficialmente in lizza con “Le Meraviglie” aggiudicandosi il premio della giuria; di Edoardo de Angelis, Laura Bispuri, Francesco Munzi… «L’Italia è uno dei più grandi paesi del cinema. E un grande paese del cinema non muore mai. Da voi c’è sempre stata una sorta di passaggio del testimone ed è bellissimo sapere che dopo i grandi registi del passato oggi incontriamo artisti di qualità come quelli che lei ha citato, sapendo che dopo di loro è in arrivo un’altra generazione ancora. Non vedo l’ora di vedere l’ultimo film di Alice, che ha già scritto una bella pagina della storia del Festival di Cannes».
Che rapporto ha con l’Italia? «Amo l’Italia. Ho amici a Venezia, alla Cineteca di Bologna, a Roma e tra la formidabile generazione di registi napoletani. Col passare degli anni il mio rapporto con l’Italia è diventato sempre più importante: da Lione, dove vivo, mi basta poco e in macchina raggiungo il mio amico Barbera per cena».
A un certo punto, nel suo libro, lei parla de “Lo sconosciuto del lago”, un film di amore gay molto esplicito che nel 2013 a Cannes ha avuto due premi, e scrive giustamente che fino a qualche anno fa sarebbe stato impossibile proporre un film di questo tipo. Ma pensa che la mentalità si sia evoluta davvero? «Sì, le mentalità evolvono e oggi siamo capaci di discernere la qualità artistica di un’opera senza giudicarla a priori a partire da altri criteri. Ovviamente avremmo potuto selezionare “Lo sconosciuto del lago” anche parecchi anni fa, ma il film avrebbe scatenato immediatamente giudizi violenti, perché forse la società non era pronta a una pellicola del genere. In seguito, l’autorevolezza di una proiezione a Cannes crea un effetto incomparabile, le cui virtù e le cui poste in gioco vanno accettate».
Ogni anno lei vede circa 1800 film e ne sceglie 60 per la selezione ufficiale e 20 per la competizione vera e propria. Che domande si pone per effettuare questa scelta? «Questo è un film che deve assolutamente andare a Cannes»? Oppure: «Cannes farà del bene a questo film?» «Il mio lavoro non consiste nel dire “Va bene” o “Non va bene”, e nemmeno “Mi piace” o “Non mi piace”. I film che ci piacciono sono molto più numerosi di quelli che scegliamo. La faccenda più importante è riflettere sulla pertinenza di una selezione: partecipare al Festival di Cannes gioverà al film? Correrà dei rischi? C’è, al contrario, la possibilità di un vero trionfo? Del resto, mi capita anche di amare molto alcuni film e di mantenere la convinzione che proiettarli al Festival non sarebbe loro utile».
Un giorno si riconcilierà con Emir Kusturica o Miguel Gomes che ce l’hanno con lei per non aver scelto i loro film e hanno usato parole molto dure contro di lei? «Ma sì, di sicuro. Capisco la loro delusione e capisco di essere diventato la personificazione di una speranza delusa. Un artista ha il suo orgoglio, lo so. Questo genere di situazione capita, ma col tempo spesso vi si può porre rimedio».
Il festival di Cannes festeggia i 70 anni: come vede il suo futuro? «In futuro i grandi festival del cinema come Cannes, ma anche Venezia, Berlino e Toronto acquisiranno sempre più importanza e dobbiamo prenderci le nostre responsabilità. In un’epoca nella quale tutto è digitale e si vive sui social network, ritrovarsi tutti insieme in una stessa sala da cinema per scoprire opere che raccontano la natura umana e ciò che siamo è una necessità, un’esigenza e un piacere».