L’Espresso aveva inconto il campione di intelligenza scomparso a 107 anni, il maestro che ha rivoluzionato la critica dell'arte. "Scarabocchiare è una cosa innata. E io nella mia vita ho scarabocchiato"

E' morto a Milano, all'età di 107 anni, Gillo Dorfles, critico d'arte e filosofo italiano.Nel 1948 fondò, insieme ad Atanasio Soldati, Galliano Mazzon, Gianni Monnet e Bruno Munari, il Movimento per l'arte concreta, del quale contribuì a precisare le posizioni attraverso una prolifica produzione di articoli, saggi e manifesti artistici.

Ti chiedi cosa hanno visto quegli occhi verdi e umidi, affossati nel volto solcato dal tempo. Ti chiedi cosa hanno toccato quelle mani strette nel grembo. ?Mani nodose che forse soltanto Kokoschka saprebbe ?portare sulla tela con pennellate veloci e febbrili.

L’appuntamento è nella sua abitazione al penultimo piano di un palazzo della borghesia anni Trenta, nel centro di Milano. L’Uomo del Novecento sta lì, seduto su una seggiola del salotto davanti a un tavolino. Sulle pareti attorno, tra scaffali zeppi di libri, si riconoscono sculture, disegni, dipinti di pregio. Sorseggia il caffè, coccolato da un maglioncino color bosco, primaverile, di morbido cashmere. Una camicia rosa a far da contorno alle rughe del collo. Appoggia la tazzina con delicatezza, in silenzio. «Et il a reposé la tasse, sans me parler», annoterebbe Prévert. Gesti semplici e regali, che sembrano fermare il Momento. Allora intuisci cos’è l’eleganza, «uno dei grandi requisiti dell’uomo», suggerirà qualche minuto dopo, conversando. Cos’è il gusto, cosa sono i modi.

Li incarna tutti, Gillo Dorfles, il grande intellettuale, critico d’arte e pittore insieme. Filosofo, padre indiscusso dell’Estetica italiana, attento studioso dei costumi e teorizzatore del “kitsch”, ha pubblicato saggi entrati nelle collane del pensiero mondiale. La chiacchierata dura quasi tre quarti d’ora, prima che la parola e il ragionamento inizino ad affaticarlo. Tre quarti d’ora in cui racconta di sé e della sua longevità, essa stessa un caso per un vecchio del 1910 che a centosette anni conserva una lucidità pressoché intatta. Probabilmente oltre natura, ai limiti della biologia, che la scienza farebbe fatica a spiegare. «Come sto? Discretamente», sorride aspettandosi la domanda. Si sporge con la testa in avanti, per sentire meglio. «Data un’età eccessiva, che era meglio se non raggiungevo, non posso lamentarmi. Meglio se non la raggiungevo perché più in là si va con gli anni peggio funziona il proprio corpo, peggio funziona la propria personalità. Quindi io credo che sarebbe meglio se si morisse verso i cinquant’anni».

Ironia della sorte, Dorfles sta imboccando la terza vita. La prima e la seconda le ha trascorse senza particolari regole. «Ho fatto quello che mi comodava», confessa il Sopravvissuto. Mai una dieta. «Ho sempre mangiato tutto, non ho mai seguito un principio preciso…non ho mai detto, ad esempio, non mangio la carne!». Un bicchiere di vino rosso ai pasti, conferma chi lo conosce bene. Come suggerirebbero i dottori di una volta.

La mente funziona e pure il fisico, oggi un po’ ricurvo, non l’ha abbandonato troppo. In casa, magari un po’ claudicante, si muove da solo. Fino a qualche mese fa faceva le scale agilmente, su e giù arzillo, come si scopre da un sorprendente filmato, “La guerra del tempo”, che il regista Francesco Leprino ha da poco dedicato all’intellettuale e che l’architetto Marianna Accerboni, fra i critici di riferimento dell’artista, sta facendo conoscere a Trieste e Gorizia, terre di origine della famiglia Dorfles, e a Bruxelles.

Un video in cui Gillo legge e commenta le poesie composte di suo pugno durante la Seconda guerra mondiale, in mezzo ai dipinti di quell’epoca. Un percorso surreale che restituisce un ritratto inedito dell’uomo, allora sfollato in Maremma e costretto momentaneamente a lasciare gli studi. «Anni difficili», ripercorre Accerboni, «in cui però Dorfles non ha mai smesso di interessarsi di arte d’avanguardia. Era combattuto sin da quella volta fra arte e teoria. Ossia da un lato la pittura, dall’altro la critica, l’estetica e la filosofia». Sarà il tarlo di una vita.

Ai pennelli Gillo è approdato appena ventenne, di certo non per caso ma per un «impulso interiore», ci tiene a puntualizzare rivedendosi davanti alle tele. Scarabocchiava sui banchi di scuola quando portava i calzoni corti e ha continuato prima e dopo gli studi universitari in Medicina. «Pensavo fosse stupido buttarsi nella letteratura, una laurea senza precisione», soggiunge. E poi la specializzazione in Psichiatria che gli servirà per setacciare angosce e inquietudini, sue e del tempo, che l’hanno ossessionato per tutta la vita e che a modo suo ha riprodotto nella pittura. «È stata un’auto indagine diventata più acuta con una preparazione specifica», osserva. Il suo personalissimo segno introspettivo, nelle linee e nei colori, fiorisce già a ventiquattro anni, nel ’34, quando a Dornach, in Svizzera, segue le conferenze steineriane di antroposofia al Goetheanum. Nel ’48 sarà tra i fondatori del Mac, il Movimento Arte Concreta. La pittura resta il naturale approdo, un’esplorazione dell’Io, di ciò «che mi agita dentro», dirà, trasferita nella spontaneità delle forme astratte e surreali. Li chiama «ghirigori», pare ereditati nell’infanzia dal papà ingegnere navale, che ritroviamo nel suo intero percorso artistico in una sorprendente varietà di dipinti, disegni e ceramiche. O decorazioni che continuano a far tendenza al bar nelle tazzine griffate.

Dorfles consegna un patrimonio inestimabile, ne è consapevole. Con un ma. L’insoddisfazione di non aver raggiunto «l’apice», confida oggi ripercorrendo le tappe della sua incredibile storia umana e artistica. «Non sono arrivato all’apice», dice proprio. Lo pronuncia con una severità al limite dell’assurdo, per quell’aristocratica umiltà che ha nelle vene. Che è la sua cifra. «Passo il tempo a rimproverarmi», confessa, rigirandosi il cucchiaino del caffè tra le dita, «perché nei diversi campi che ho frequentato non sono mai giunto a quel livello che avrei voluto e potuto. Ho dipinto tanto, ma non credo di poter dire di essere il più grande pittore italiano. Questo vale per tutto quello che ho fatto». Si blocca per un attimo, in silenzio, ricongiungendo le mani. Guarda fisso, vagamente assente. Occhi annebbiati forse dai ricordi.

Mentre si disfaceva e faceva l’Europa, lui c’era. Mentre sorgevano e scomparivano dittature lui, «antifascista della prima ora», come gli piace ripetere con orgoglio, c’era. Correnti artistiche, dalla Pop Art al Concettuale: c’era. Tendenze, mode, pittori di fama internazionale. Lui c’era. Da testimone e da protagonista eclettico, scrutando la società di massa e l’Essere, a fianco dei grandi. «La mia benzina intellettuale», riprende con pacatezza, «credo sia stata la curiosità sia letteraria che scientifica, non per niente ho studiato Medicina e Psichiatria, non per niente mi sono dedicato all’Estetica. Non mi sono mai fermato a un’unica pratica, ho sempre seguito una pluralità di interessi. Che, avverte, «considero un merito. Sì, ho avuto il merito delle multipolarità del pensiero, anche se molti mi rinfacciano di non aver precisato meglio quella che era la mia meta. Il mio pensiero oggi è sospeso tra creatività e critica». Ecco il nodo. Si è destreggiato in entrambe, sparigliando i canoni del mondo fuori, notoriamente più incline alle etichette, ai contenitori e alle gabbie che fanno da spartiacque intellettuale. O critico o pittore: «Scelga», devono avergli raccomandato. Chissà. «Io faccio il critico d’arte da quando avevo diciott’anni», chiarisce Gillo, «però ho sempre avuto una spinta, un desiderio a esprimermi. Pur interessandomi di musica e letteratura, ho capito che la pittura mi era più congeniale, perché manuale e immediata. Fare l’architetto, ad esempio, richiede maggiori sforzi. Fare il musicista richiede maggiori talenti. Invece scarabocchiare è una cosa innata. E io nella mia vita ho scarabocchiato. Sono stato influenzato da tutta la scuola moderna», riflette, «ma mi è difficile fare dei nomi. Posso dire che con l’arte ho rappresentato il mio animus». “L’Animus”: psiche, inconscio e sogno, il pozzo da cui attingere creatività ed estro, fa intendere Gillo pescando non a caso quel termine, così chiacchierando. No, l’età non gli ha affatto intaccato la brillantezza del pensiero. «Oggi lascio alcune opere, non disprezzabili del tutto…» Il suo stile, concordano i critici, esce da qualsiasi corrente o movimento preciso. Qua e là ci si imbatte in elementi metafisici, simbolisti, surrealisti, astratti, espressionisti. Lo si è visto di recente nella mostra di suoi disegni alla Triennale di Milano.

Sempre dentro l’intellighenzia del Novecento, Dorfles ha conosciuto una varietà smisurata di pittori che l’hanno suggestionato. «Non mi è parso vero di ritrovare una modalità figurativa uguale alla mia», commentava, riferendosi a Kandinskij e Klee, in un’intervista del 2015 raccolta in “Essere nel tempo”. «Questi due artisti mi hanno influenzato tantissimo», affermava. Li conosceva, come conosceva Fontana, a cui ha aperto la strada.

Curiosamente, non ha mai acquistato un quadro da nessuno. Le opere che conserva in casa, per lui sono ricordi personali. Regali dei maestri che ha incontrato e svelato al grande pubblico o di cui è stato amico. «Mi sono stati donati, ma se dovessi proprio comprare qualcosa», ragiona adesso, «prenderei un Klee, uno dei migliori artisti del Secolo. Mi è molto affine». Un italiano? «Un Capogrossi…».

Dorfles è un predestinato alla tensione creativa dall’adolescenza. Nato a Trieste, entra presto in contatto con l’ambiente culturale della città. Frequenta la casa di Ettore Schmitz, Italo Svevo, e da ragazzino va a far visita a Umberto Saba nella celebre libreria di via San Nicolò. “L’antro oscuro”, tutt’ora esistente. Il grande poeta legge i versi che lui, l’acerbo Gillo, compone. «Sì», rammenta divertito il futuro artista, con uno sforzo di memoria, «avevo diciott’anni. Eh, Saba era un personaggio particolare… Il fatto che lui desse un giudizio, seppur parziale, di quello che gli portavo, significava molto per me. Mi diceva che le mie poesie erano “abbastanza positive”, ma le mie cose erano completamente diverse dalle sue».

Da raffinato osservatore di tendenze e costumi, dal dopoguerra in poi Dorfles ha dato alle stampe svariate pubblicazioni, alcuni best seller, guadagnandosi il titolo di fenomenologo del gusto. A cominciare dal “Discorso tecnico delle arti”(1952) fino a “Nuovi riti, nuovi miti” (1965), “Artificio e natura” (1968), “Le oscillazioni del gusto” (1970), “La (nuova) moda della moda” (1984) e “Horror pleni. La (in)civiltà del rumore” (2008), per citarne alcuni. E il lavoro più noto, “Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto” (1968). Bompiani ha annunciato per metà giugno un nuovo libro, “Personaggi e paesaggi”, a cura di Enrico Rotelli. Ma a centosette anni, dal salotto di casa, preferisce soffermarsi sul senso dell’eleganza. «Importantissima», sillaba, «uno dei grandi requisiti dell’uomo, tanto più della donna. Nel comportamento, nel pensiero, nel vestire. Rientra in tutte le funzioni della nostra personalità». È sull’arte, per quanto abbia scritto, detto e ridetto in passato, che non ha una definizione in tasca che lo soddisfi appieno. «Cos’è? Ah!», esclama, spalancando gli occhi, «impossibile, è un impulso!».

Il segreto della sua longevità e lucidità è un interrogativo. «Il motivo? Non lo so, credo i vari elementi fisiologici dei miei genitori e della mia famiglia…», abbozza. La tempra, dura come pochi, è quella di chi ha la mitteleuropa nelle vene. «Il fatto stesso di essere nato a Trieste», annota, «per me vuol dire avere un legame con l’Austria, la Germania, con il popolo slavo e italiano. Per cui io non mi posso dire italiano completamente, ho dei legami con tutte queste nazionalità». Parlando, sente il desiderio di soffermarsi su Trieste, che porta nel cuore. «Purtroppo non ha avuto il destino che meritava, è una città con qualità straordinarie che sono state in parte sprecate».

Scrive a mano, Dorfles, e ogni tanto a macchina «quando sono costretto». Una decina di anni fa, sull’orlo dei cent’anni, gli hanno insegnato ad adoperare il computer e a mandare mail. Sa cosa sono internet e i social. «Hanno ampliato enormemente il nostro raggio d’azione, ma mi servo poco dei nuovi media». Non ha smesso di dipingere e proprio recentemente ha firmato alcuni pannelli per il Salone del mobile di Milano, che ha pure visitato. «La pittura è la cosa fondamentale che faccio ancora». Alla ricerca di quell’apice che rincorre sempre, a centosette anni. In fondo ha una quarta vita davanti.

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