La scienza ha ridotto gli spazi del pensiero. E il risultato è un pluralismo brado che rappresenta una paradossale e strisciante abdicazione a ogni intelligenza

Illustrazione di Giuseppe Fadda
“Filosofia” è stata per gran parte della storia occidentale quasi sinonimo di scienza e sapienza. L’opera maggiore di Isaac Newton porta ancora il titolo di “Principi matematici di filosofia naturale”. Ma da allora, e con particolare intensità dal secondo dopoguerra, le cose sono drammaticamente cambiate. Oggi la funzione e l’autorevolezza un tempo evocate dal termine “filosofia” sembrano essere monopolio delle scienze naturali. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quale possa essere (o se ancora debba esservi) uno spazio della filosofia nel mondo odierno, nell’“Epoca della scienza”. Il fatto che più o meno tutte le scienze oggi note, dalla fisica alla biologia, dalla psicologia alla sociologia siano nate come “costole” della riflessione filosofica può richiamare glorie passate, ma non dice molto delle possibilità presenti. Dovremmo forse risolverci a considerare la filosofia come una forma di conoscenza superata, da gettare “nella pattumiera della storia”, accanto all’alchimia, alla frenologia, all’astrologia, e ad altre pseudoscienze?

Di fatto, l’autorevolezza conquistata dalle scienze naturali ha finito per esercitare sulla filosofia una pressione sia concreta, in termini di riduzione degli spazi accademici e di ricerca, sia per così dire psicologica, creando una sorta di crisi identitaria. Questa crisi ha indotto nel ’900 l’attività filosofica a cercare di ridefinire la propria identità. L’esito di questo processo è stato l’emergere di quattro orientamenti primari; la filosofia si è concepita in sempre maggior misura o come “riflessione sulla scienza” (epistemologia, metodologia, ecc.), o come “cultura critica” (ermeneutica, postmodernismo, decostruzionismo, ecc.), o come preservazione della tradizione (storia della filosofia), o traendo senz’altro ispirazione e stilemi dalle scienze naturali (filosofia analitica). Questa classificazione è naturalmente approssimativa e non esaustiva, ma fatta ammenda per la necessaria approssimazione, queste tendenze sono nei loro tratti generali facilmente accertabili.

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Ora, chiediamoci: tale ridefinizione degli orientamenti è tutto ciò che ci si può attendere dalla tradizione filosofica? È utile soffermarci a questo proposito sul decisivo rapporto con la scienza. Qual è la forma di conoscenza che la scienza moderna de facto finisce per consentire e proporre? Al netto di analisi di dettaglio, il problema macroscopico che l’epoca della scienza naturale non può evitare di proporre è quello della frammentazione dei saperi. La divisione del lavoro, e l’interesse prioritario per l’efficacia causale, hanno fatto sì che oggi nessun fisico possa dire di conoscere senz’altro la Fisica, nessun biologo di conoscere la Biologia, nessun economista di conoscere l’Economia, ecc. Il sistema di produzione delle verità scientifiche è un sistema che si giova delle virtù della divisione del lavoro e la raccomanda.

Articoli scientifici generalisti sono scarsamente apprezzati a livello accademico, mentre la specializzazione perseverante è costantemente premiata. Tutto ciò ha ottime ragioni nella capacità di questo modello metodologico di far crescere le competenze operative (si pensi agli straordinari progressi della medicina nell’ultimo secolo). E tuttavia, la Scienza, quando ancora non si distingueva dalla Filosofia, faceva qualcosa di essenzialmente diverso. Accanto all’attenzione per il governo locale dei processi materiali era essenziale la ricerca di una “visione vera” del mondo. Di ciò nella prassi delle scienze contemporanee non è rimasta sostanzialmente traccia. La frammentazione in oggetto non coinvolge infatti solo le partizioni interne alle singole scienze, ma in modo ancor più radicale le relazioni tra scienze diverse. Non esiste una concettualità comune, anzi neppure una concettualità compatibile tra, ad esempio, fisica, psicologia, economia, storia, biologia evoluzionistica. Ciascuna scienza organizza i propri saperi in cornici parzialmente, o talvolta integralmente, incompatibili con i quadri proposti da altre scienze. Concetti irrinunciabili in un campo risultano inconciliabili con concetti irrinunciabili in un campo diverso.

Si potrebbe dire che questo è un necessario sacrificio al progresso scientifico. Questa frammentazione dei saperi non è però un incidente senza vittime. Il suo risultato complessivo è una forma storica inedita di irrazionalità. Un mondo sommerso di saperi specialistici, e di informazioni particolari irrelate, produce un disorientamento cognitivo profondo e diffuso. L’esito paradossale è che in un mondo apparentemente dominato da paradigmi scientifici lo spazio per pregiudizi vaghi, leggende metropolitane, credenze settarie, sapienze alternative, dogmi incoercibili è più ampio che mai.

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È in questa giunzione che la filosofia, intesa in senso classico, ha la possibilità di esercitare un ruolo essenziale. Gli orientamenti filosofici novecenteschi menzionati più sopra, pur preziosi e fecondi, mancano programmaticamente di un aspetto che fu invece al cuore del ruolo tradizionale della filosofia. Ciò che accomuna paradossalmente orientamenti filosofici così diversi come la riflessione epistemologica, la storia della filosofia, la critica culturale e l’indagine analitica (se intesi in senso specialistico) è la tendenziale rinuncia all’orizzonte della sintesi, al tentativo di produrre visioni del mondo, o loro abbozzi.

La propensione tradizionale alla sintesi sistematica, al “sistema filosofico” è stata progressivamente percepita dal secondo dopoguerra come qualcosa di indebitamente ambizioso, di inattuale, di pretenzioso, addirittura di violento.

L’influenza del modello organizzativo delle scienze ha finito per gettare implicitamente discredito proprio su quel tipo di sintesi razionale di cui oggi si sente acutamente la mancanza.
Alla paradossale condizione odierna, di un irrazionalismo grondante di informazioni irrelate, oggi finiscono per porre rimedio guru autopromossi, tuttologi da Talk Show, promotori di fedi, e fondamentalisti vari.

Occasionalmente (su appello dei media più scrupolosi) viene convocato qualche scienziato in pensione, la cui autorevolezza settoriale viene spesa per farlo esprimere su massimi sistemi di cui, nel migliore dei casi, è un tardivo dilettante.
In questo contesto, invece, l’indagine filosofica è l’unica forma culturale nota ad aver elaborato metodi e forme riflessive adatti a produrre sintesi razionali (scientificamente informate), quadri sistematici, mappe e visioni che consentano una lettura del presente e un orientamento razionale nel mondo. Una visione che miri alla comprensività e coerenza d’insieme non ha né rigore né statuto razionale inferiore a una visione analitica. La filosofia ha il diritto, ma anche il dovere, di porre un argine a questo pluralismo brado che, lungi dall’essere un contributo alla ragione, rappresenta una paradossale e strisciante abdicazione ad ogni intelligenza.