Resta appartato. Non sposta un voto. Oggi è una figura sconfitta. Ma la società ne ha bisogno. Anche se viene premiato solo quell'oracolo consolatorio, con la tendenza all’appiattimento, che si ostina a frequentare il salotto televisivo di turno. La provocazione di uno scrittore
L'intellettuale non può deontologicamente essere simpatico al potere in corso. Mi spingerei fino a dire che uno dei compiti dell’intellettuale è di rappresentarsi, in automatico, come antagonista. Come figura che non cede al ricatto della consolazione, della lamentela, del luogo comune, del consenso.
Le società che funzionano, anche a fasi alterne, sono quelle in cui questa precisa forma di antagonismo si esercita senza ricatti. È un mestiere come un altro quello dell’intellettuale, solo un po’ più articolato, perché bisogna sapere più cose senza vergognarsene, avere la tendenza a fare collegamenti senza temere di svuotare le platee, partire dalla complessità senza confonderla con la complicazione, avere il coraggio della parola astrusa o del lemma inusuale.
L’intellettuale è quello che ricorda in quanti modi si possa dire la stessa parola di cui tutti paiono accontentarsi. Sa che, per questo semplice contributo, sarà tacciato di saccenteria, ma non si lascia intimidire, accoglie su di sé il peso della povertà lessicale generalizzata e prova a dimostrare che il linguaggio ha valore anche nella scelta, direi selezione, dei termini e non solo nel tono di voce con cui si decide di esprimerli. Prova a spiegare che “la consecutio temporum” migliora la frase, e il messaggio conseguente, come una buona lezione di Pilates migliora il gluteo cadente; che non è affatto vero che anche il figlio dell’ingegner tal dei tali, deportato al MoMa durante la gita scolastica a New York, è in grado di dipingere un quadro di Pollock o di Miró; che quando si parla, e si scrive, per l’ennesima volta, di “silenzio degli intellettuali” bisogna controllare di non essere un intellettuale che ha usato il suo spazio pubblico sulla grande stampa nazionale per lamentare il silenzio degli altri senza aver detto niente del suo silenzio.
Gli intellettuali, l’abbiamo appena visto, non spostano un voto. Nel nostro Paese si ha una tendenza perversa a confondere la risonanza con la sostanza. Ci siamo abituati a un’idea di intellettuale pubblico come oracolo consolatorio, con la tendenza all’appiattimento, e quindi all’adeguamento, della lingua e del pensiero. Quel tipo di “intellettuale” parla a comando e quando sta zitto lo fa a ragion veduta. Il suo intento è di trovarsi nel posto giusto nel momento giusto. Quasi sempre il salotto televisivo di turno. Fa il polemico senza esserlo, è presente, lo vediamo tutti, quindi c’è. Ma si muove sempre nei limiti di una performance in cui le parti sono già scritte.
Quel tipo di “intellettuale” si rappresenta come popolare, dando a quella parola l’accezione più offensiva e umiliante. Concedendosi mani e piedi al generalizzato adeguamento verso il basso, sminuendosi per affermare la propria superiorità. Ci si rivolge al popolo, dunque si riduce la portata dei concetti, il patrimonio delle parole, al minimo, disprezzando, di fatto, l’interlocutore.
Tuttavia, come un buon politico, un buon genitore, un buon insegnante, anche un intellettuale non dovrebbe avere nessun interesse per la popolarità, sapendo, su di sé, di svolgere un compito a rilascio lento, spesso lentissimo. Nel nostro deprimente Paese Pasolini e Bobbio, per fare due esempi semplici, rilasciano ancora senza sosta. E servono come il pane. L’intellettuale dovrebbe sempre tenere presente il peso, fisico e psicologico, delle affermazioni che fa. Dire cose di cui si deve rispondere, significa non usare parole qualunque ma mirare con precisione e dunque avere in mente un preciso scopo. Chi spara nel mucchio, chi non si prende un po’ di tempo per mirare, chi non è in grado di selezionare i propri interlocutori non è un intellettuale. È un’altra cosa, magari anche migliore, ma non un intellettuale.
La parola stessa, intellettuale, che noi tendiamo a confinare nella lista nebulosa dei termini a libero accesso come poeta, scrittore, pittore, attore, cantautore, politico, amministratore, direttore di salone del Libro, è invece assai poco accogliente. A differenza di quanto sostengono taluni nessuna di queste funzioni è spaziosa e capiente. Per ognuna di esse occorre attitudine, studio, fatica, coraggio.
Non è affatto vero che intellettuali, attori, pittori, poeti, cantautori, politici, amministratori, direttori di Saloni del Libro, possano esserlo tutti. Si può millantare di esserlo, si può persino essere nominati, eletti, rappresentati, pubblicati, senza che questo autorizzi a definirsi tali.
Gli intellettuali hanno l’onere di spiegare che la linea del consenso, ai fini dell’incidere sul proprio tempo, è assolutamente ininfluente. Il video su Youtube di un cane a cui vengono applicati quattro piccoli doposci per farlo zompettare sulla neve, e del suo conseguente, per alcuni divertente, disagio nel muoversi, ha ottenuto oltre quaranta milioni di visualizzazioni. E allora? Basta accendere la televisione per percepire con chiarezza quanta differenza ci sia tra la professionalità e l’improvvisazione. Sempre che la si voglia percepire.
L’assenza di intellettuali in una società fa in modo che questa percezione si attenui fino a scomparire, fino a diventare un atout anziché un deficit. Permette a chiunque di citare Calvino e la sua presunta leggerezza a sproposito, per esempio. Senza il rompiscatole che ti spiega che tra Valeria Marini e Valeria Moriconi, che pure hanno calcato i palcoscenici del nostro Paese, c’è una differenza abissale, nonostante l’assonanza onomastica, la nostra memoria collettiva è più povera. E se due o tre persone, dopo la lettura paziente di questo appassionato sproloquio, vorranno digitare su Google il nome Valeria Moriconi, vorrà dire che la mia giornata da intellettuale avrà avuto un senso.
L’intellettuale potrebbe persino azzardarsi a spiegare che in campo editoriale i successi sono quelli che sono; che chi esamina le situazioni in corso come se fossero le uniche determinanti per il futuro non ha letto abbastanza; il dibattito sulla “dittatura degli editor” che questa rivista ha recentemente ospitato, per esempio, mi pare un dibattito importante, ma, in qualche modo, pseudointellettuale. Perché chiude in una formula data, direi un po’ limitata, un discorso assai più articolato e, lasciatemelo dire, eminentemente politico con tutta la complessità che ne consegue. Ma se la polemica si limita a “gli editor costruiscono i successi editoriali” non mi interessa, lo dico senza mezzi termini.
Vorrei ricordare che non troppo tempo fa i bestseller in questo Paese erano Guido da Verona e Carolina Invernizio, vi dicono niente “Sciogli la treccia”, “Maria Maddalena” o “Il bacio di una morta”? Cercateli su Google. Non posso credere che persone colte e intelligenti confondano il mercato editoriale con la letteratura: sono sempre stati insieme, hanno sempre convissuto. Hanno da sempre svolto compiti diversi. Elsa Morante e Nantas Salvalaggio, coesistevano a pochi centimetri negli scaffali delle librerie, come John Grisham e Joseph Roth. Persino gli U2 e i Jalisse sono stati coevi nella storia della musica recente. Dunque? Quale sarebbe la materia del contendere? Non ci sono mai stati i tempi in cui si pubblicavano solo i migliori, ma quella sensazione ci è rimasta proprio perché, nel tempo, sono rimasti solo i migliori. Tutti gli altri, anche i più famosi del momento, anche i vincitori del vincibile, anche i campioni di incasso e i campioni di presenzialismo, sono definitivamente scomparsi. Malaparte vive, Pitigrilli è morto. E Pitigrilli contava come Fabio Volo.
Discutere come se ci si confrontasse contro un nulla di fatto, come se fossimo all’anno zero, fa un torto a tutti. A chi parla e a chi ascolta.
Dire che il più grande scrittore italiano, o francese, o australiano eccetera, coincide col più venduto, è una sciocchezza sesquipedale, che “i più grandi scrittori” in questione contestano per primi. Ma affermare che a causa del loro successo, pilotato, la scrittura muore è altrettanto sciocco. Non sono gli editor frustrati o i Fabio Volo che rovinano la letteratura, anzi spesso la sostengono, perché per ogni Volo che si stravende, per ogni Franchini che si inventa un titolo geniale, si può “rischiare” di pubblicare un Michele Mari o una Laura Pariani. Per ogni Kerbaker che può fare affermazioni di una superficialità sconcertante, che umiliano lui per primo e tutti gli ospiti, molti dei quali fior di intellettuali, del suo “frizzante e leggero” Tempo di Libri 2018, c’è una Chiara Valerio che può svettare per compostezza, dignità e competenza.
Per fortuna l’intellettuale sa bene che la gara che sta facendo non si può vincere oggi. Oggi ha già perso.
L’intellettuale dovrà tenere conto del fatto che tutto quello che si saprà dei suoi tempi dipenderà dal suo grado di resistenza. Dovrà esserci quando gli altri non ci saranno più ed esercitare il suo presente alla luce di questa importantissima responsabilità.