Un'enigmatica iscrizione torna alla luce negli scavi più recenti e riapre il dibattito sulla data dell’eruzione del Vesuvio, 1940 anni dopo
Pompei non finisce di raccontarsi, e di stupire. A 1940 anni dalla sua tragica fine, nuove scoperte svelano storie private, affreschi e scritte a carboncino a dir poco sconcertanti.
Siamo nella “Regio V”, verso la Porta che conduceva al Vesuvio, dove gli interventi previsti dal Grande Progetto Pompei, realizzato con il contributo dell’Unione Europea, riguardavano la salvaguardia del limite di quest’area. Gli archeologi hanno così potuto svuotare gli ambienti che si affacciavano sulla strada, e i rinvenimenti hanno superato ogni aspettativa.
Entrando nella “Casa di Giove”, si nota subito che l’atrio, stranamente, è privo della vasca centrale per raccogliere l’acqua piovana. Le pareti, inoltre, sono decorate in modo esteso nel più antico “primo stile”: riquadri a rilievo di colori diversi, ben conservati, che sembrano grandi quadri astratti. In un’ “ala” aperta su questo ambiente, un grande mosaico a colori mostra raffigurazioni che appaiono qui per la prima volta. Vi sono rappresentati uno scorpione che sta per attaccare un uomo, i cui capelli vengono bruciati dalla fiaccola di una figura alata e, ancora più sopra, un’altra figura alata porge una corona.
Secondo Massimo Osanna, appena riconfermato alla direzione del Parco archeologico di Pompei, si tratterebbe di un mito astrale: la trasformazione di Orione in costellazione. L’abitazione prende il nome dal dio che appare su un muro del giardinetto interno in un’immagine sbiadita, per vederlo ritratto a tinte brillanti, ma sotto altre forme, ci si deve spostare in una casa di fronte, da poco denominata “di Leda e il Cigno”.
L’attribuzione deriva dal vivace quadretto che raffigura il mitico amplesso fra l’intraprendente padre degli dei, trasformato in candide sembianze alate, e la regina di Sparta. Gli altri quadretti della stanza non sono leggibili, mentre colpiscono le raffinate decorazioni floreali. Se tanta arte risplende in un piccolo ambiente, possiamo immaginare il lusso delle sale per banchetti, peccato che debbano restare ancora sepolte. Fa notare, difatti, Massimo Osanna: «Il Progetto europeo riguarda il consolidamento dei fronti di scavo e solo per la loro messa in sicurezza si è potuto indagare un “cuneo” ancora sotto i lapilli. Le eccezionali scoperte, come l’affresco di Leda, hanno quindi indotto a proseguire i lavori nell’intera stanza e nell’atrio posteriore per definire il contesto». E, in prospettiva, aggiunge: «Il nostro impegno futuro sarà quello di concentrarci sullo studio di quanto è venuto alla luce, dalle indagini sugli scheletri ai dati archeologici, ma anche vulcanologici e geologici, e di lavorare alla valorizzazione delle nuove aree in vista della fruizione. Al contempo, continueranno ricerche e studi in vari luoghi del sito, già indagati, in collaborazione con università e istituzioni italiane e straniere».
Vicino a questa domus, ecco la “Casa col Giardino”, che ha rimesso in piedi la “vexata quaestio” della data dell’eruzione.
Nel grande atrio c’erano lavori in corso, come in tante abitazioni. Altri ambienti erano stati ultimati e affrescati da maestranze qualificate che ci hanno lasciato dipinti a soggetto mitico e un tondo che racchiude il busto di una donna “dagli orecchini di perle”, con indosso una veste trasparente e un mantello verde.
Gli operai che dovevano ancora pavimentare e intonacare l’atrio, avevano graffito in prossimità dell’ingresso delle frasi oscene e disegnato due profili maschili. Su un muro della sala, qualcuno di loro aveva invece scritto a carboncino una frase, lacunosa, le cui diverse integrazioni fanno discutere. Secondo la paleografa Giulia Ammannati della Scuola Normale di Pisa, si legge: «Hanno portato via dalla cella olearia…..»; di altro parere, Antonio Varone che ha studiato tutte le iscrizioni pompeiane, traduce: «Indulse in modo smodato alla crapula». Di sfoghi, commenti e pettegolezzi sui muri era piena comunque la città, ciò che ha reso eclatante la scoperta è quanto era scritto sopra: «17 ottobre», indicato come 16 giorni prima delle calende (l’inizio) di novembre: XVI K NOV. Dunque, l’eruzione si sarebbe verificata in seguito.
Per il periodo autunnale della catastrofe, avvenuta sicuramente nel 79 d. C., spingono vari indizi: anfore vinarie messe a fermentare, bracieri, presenza di indumenti pesanti addosso alle vittime, come hanno rivelato i calchi. Anche se, a tal proposito, si può osservare che chi esce di casa per cercare scampo altrove, mentre piovono lapilli e pomici, si copre con quanto ha di più pesante.
La data tradizionale riguarda l’estate. La convinzione è dovuta soprattutto a un “reporter” speciale: Plinio il Giovane, che si trovava a Miseno con l’omonimo zio, comandante della flotta sul Tirreno. Nel descrivere allo storico Tacito quanto aveva visto da lontano e la fine eroica del suo parente, specifica che quella mattina Plinio il Vecchio aveva fatto un bagno di sole e uno in acqua fredda. Intorno alle tredici (ora moderna), incuriosito dall’alta nube a forma di pino che spuntava da un luogo non precisato, decise di imbarcarsi per esaminare il fenomeno, quando ricevette un messaggio che gli riferiva i primi disastri provocati dal Vesuvio. Desiderando prestare aiuto alle popolazioni della costa, fece mettere in mare le quadriremi. Riuscì ad approdare solo in serata a Stabia, dove trovò la morte l’indomani.
Il bagno freddo che aveva fatto due giorni prima risulta però inconcepibile alla fine di ottobre, per una persona anziana e sofferente nelle vie respiratorie, qual era: Plinio jr., in un altro passo, specifica che era un’ abitudine estiva dello zio.
L’epistolario, nella versione maggiormente tràdita, indica: 24 agosto. Sono il giorno e il mese riportati nel Codice Mediceo Laurenziano del IX secolo, mentre altri codici posteriori hanno trascritto 24 ottobre o novembre. Del resto, se sono stati trovati rami con bacche autunnali, lo studio di molte erbe le ha riconosciute come estive. In ogni caso, si deve accettare la data lasciata dal carboncino, pur se non tutto quadra. Ma come la statua della Lupa Capitolina rimane simbolo di Roma al di là delle dotte discussioni sulla sua vera età, l’eruzione di Pompei resta documento storico che prescinde dal mese del suo avvenimento.
Nella stessa casa, in un vano vicino all’ingresso, sono stati recuperati diversi resti di scheletri. Il loro primo ritrovamento risale al Seicento. All’epoca, la collinetta detta “la Civita” non era stata individuata come Pompei; si scavava però al suo interno per recuperare pomici utili all’edilizia, arrivando spesso ai pavimenti di età romana. «Si procedeva quindi con tunnel alla ricerca di oggetti preziosi», commenta Francesco Muscolino, l’archeologo del Parco che ha seguito gli scavi nella “Regio V”, «e qui è possibile che qualche vittima indossasse gioielli». Infatti gli antropologi hanno attribuito le ossa a non meno di sei-sette individui, donne e bambini. E gli uomini dov’erano?
In cerca di qualche mezzo per lasciare la città, o finiti in un ricovero temporaneo dove rimasero bloccati, chissà. Purtroppo tutti loro furono investiti dai flussi piroclastici del vulcano diretti verso Pompei a gran velocità e carichi di gas letali, che distrussero i piani superiori delle case e soffocarono i sopravvissuti alla prima fase eruttiva. Sul margine meridionale della città, un’altra area è stata oggetto di lunghe ricerche: il complesso delle cosiddette “Terme del Sarno”. È stato un rompicapo per gli archeologi sin dal momento della scoperta ottocentesca: un groviglio di stanze, impianti termali, che erano diventati deposito di materiali. A condurre un’indagine sistematica dall’approccio multidisciplinare, con ingegneri e archeometri (Progetto MACH), è stata l’università di Padova, in collaborazione con la direzione di Massimo Osanna, su iniziativa di Francesca Ghedini, professore emerito di Archeologia. A guidare il team di specialisti e studenti sono stati Maria Stella Busana e Jacopo Bonetto, entrambi docenti nel Dipartimento Beni Culturali dell’ateneo patavino.
Si sono stabiliti diversi dati, in attesa di approfondimenti con le prossime indagini. Al tempo dell’eruzione, il complesso si estendeva su oltre 3700 mq e comprendeva un centinaio di ambienti di varia grandezza disposti su sei piani. Non è ancora possibile stabilire se appartenevano a una sola, ricca proprietà o a più famiglie, ma i servizi erano comuni. Le sale termali, con annesse stanzette, che mostrano stucchi e affreschi deteriorati di alto livello, avevano accessi interni ed esterni, per cui è ipotizzabile un uso pubblico.
Una diversa super-domus panoramica a ridosso delle mura cittadine è descritta nel recente volume di Umberto Pappalardo e Mario Grimaldi: “Villa Imperiale” (introduzione di M. Osanna, Napoli-Tokyo, Valtrend Ed). Da qui il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, in compagnia della moglie, iniziò la sua visita a Pompei il 30 settembre del 1948. Oggi vi si può accedere dall’ingresso agli Scavi di Porta Marina. Solo pochi ambienti, fra i quali un triclinio ricostruito; ma, nel quadro che raffigura il volo di Dedalo e la caduta di Icaro, si potrà ammirare la Ninfa affacciata da una roccia: forse la più bella tra le immagini femminili dipinte a Pompei.