I locali chiusi per il Covid, la necessità di ripensare l’intera professione, la politica che ignora il settore dei live. Ricondividiamo l’intervista che l’artista ci ha rilasciato l’estate scorsa
«Da metà febbraio non metto un disco in pubblico, è il periodo di astinenza più lungo della mia vita». Cresciuto nelle discoteche, Claudio Coccoluto sta da quarant'anni dietro le consolle di mezzo mondo. Tra i deejay italiani più affermati, socio del Goa, storico club romano, ha trascorso in casa il tempo del lockdown insieme al figlio Gianmaria, anche lui disc jockey, alla figlia Gaia, appassionata della trap di Los Angeles, e alla moglie Paola, che invece preferisce le melodie di Burt Bacharach. Ora che le notti italiane sono diventate silenziose, e non si sa fino a quando, Coccoluto fa scorrere i pensieri.
Come ha vissuto i mesi della quarantena?
«Tutto sommato bene, non mi era mai capitato di trascorrere un intero weekend in famiglia. Non tutti i mali vengono per nuocere, per troppi anni siamo andati di corsa, con il lockdown io e tanti altri che fanno il mio mestiere siamo stati costretti a una riflessione: cosa significa fare il deejay in un’epoca in cui la parola aggregazione di colpo è diventata nefasta?».
L'industria dell'intrattenimento è ferma, decine di migliaia di addetti sono senza lavoro. Anche il decreto Rilancio del governo ha dimenticato i deejay e i lavoratori del vostro settore.
«Mi ha colpito il discorso alla Camera del ministro della Cultura Franceschini, che ha parlato di tutti, compresi i giostrai con tutto il rispetto, ma non ha mai pronunciato le parole dj, discoteca, musica elettronica. Niente di niente. Si tratta di un problema culturale, non riusciamo a far breccia nelle istituzioni. Se siamo ignorati, però, la colpa è anche nostra: per troppi anni siamo andati tutti di corsa. Adesso la sfida è dare dignità culturale al nostro mestiere come a Berlino, dove i deejay con il Covid sono stati aiutati alla stregua dei musicisti. O negli Stati Uniti, dove la fondazione Frankie Knuckles svolge un importante ruolo culturale, oppure Detroit, dichiarata dalla municipalità capitale mondiale della techno, o Ibiza, diventata la capitale mondiale del "turismo totale" grazie al modello di business integrato “accoglienza-divertimento”».
All’inizio del lockdown ha dato vita a qualche dj set su Facebook e Instagram, poi ha smesso. Perché?
«Un po’ per pigrizia, un po' per non contribuire all’inflazione di contenuti casuali e non ponderati. Per questo motivo, con Luisa Berio abbiamo dato vita a Total Volume, un progetto di streaming che ha per scenario i grandi hotel di pregio italiani, che come i club sono chiusi e appesi alla loro sorte, spazi da riempire di musica, arte e performance.
Il primo lo abbiamo organizzato al St.Regis, a Roma. All'inizio i dj set in streaming hanno funzionato, sull'onda emotiva, poi mi sono reso conto che erano un po' autocelebrativi: mentre in discoteca la serata perfetta è quella in cui “i dischi ti saltano in mano”, si crea un rapporto alchemico con il pubblico, non scegli razionalmente la musica ma stai partecipando a un rito collettivo. In streaming, invece, la proposta è unilaterale, anche i brani che passi sono diversi da quelli che passeresti dal vivo, cosa che fatta con criterio ha comunque il suo fascino. Comunque ho trovato di meglio da fare, negli ultimi anni avevo lasciato tante cose in predicato. Dischi mai ascoltati, libri da leggere, manuali di musica da ripassare. Ad esempio, ho consumato l’album “Black Focus” di Yussef Kamaal, che era ancora nel cellophane, e ho riletto per l’ennesima volta, ma finalmente con calma, il libro “Come funziona la musica” di David Byrne, già leader dei Talking Heads e mio personale mentore».
Eppure i social hanno consentito a molti deejay di restare in contatto con il loro pubblico, coinvolgendo anche chi non metteva piede da anni in discoteca.
«Nessuno va snobbato o escluso, la tecnologia è una grande opportunità ma va cavalcata con la propria personalità e le proprie idee, senza aderire alla logica imposta dal mercato, senza lasciare il campo ai padroni del vapore. Bisogna creare o utilizzare piattaforme alternative a Spotify e YouTube, che non garantiscono la pagnotta neanche a chi ha milioni di fan. Piccole comunità virtuali che si regolano da sole, in maniera alternativa».
Molti organizzatori di eventi live premono per riaprire i locali, i governatori di Veneto e Sicilia sono pronti a ripartire, Lazio e Puglia stanno valutando. Alcuni locali si sono trasformati in ristoranti con musica di sottofondo. Cosa ne pensa?
«Si potrà ripartire solo in sicurezza, ma ci dobbiamo ancora arrivare. Ma una cosa è sicura: nessuno deve essere lasciato indietro perché questo settore, se non lo gestiranno i professionisti, nel post-Covid finirà nelle mani della malavita. Gli imprenditori in difficoltà si rivolgeranno agli usurai, prolifererà la cultura dell’illegalità. Nell’ambiente si ha già notizia di party illegali, soprattutto in provincia di Milano».
Come vede il futuro?
«Davanti a noi c’è un mare incognito, ma non ho paura. Fare il dj significa sollecitare il ragazzo che è in te ad affrontare la nuova avventura, forse sarò un irresponsabile ma la vedo così».