Parole
Javier Cercas: «Dalla guerra civile a oggi la vera rivoluzione si chiama fraternità»
Riscoperta da scrittori e filosofi. Al centro dell’ultima enciclica di papa Francesco. Il valore cristiano, il più enigmatico della triade laica della Rivoluzione francese, è anche il più difficile da vivere nei sistemi politici, economici, culturali. Ma il più necessario
La scena chiave è questa. Siamo in Spagna, nella seconda metà degli anni Trenta, durante la guerra civile. In un boschetto non lontano da Gerona, un soldato repubblicano scorge l’ideologo della Falange, Rafael Sánchez Mazas in fuga dal plotone di esecuzione che sta fucilando i fascisti. Gli sguardi dei due nemici si incrociano. Il buon soldato decide di lasciarlo scappare e di salvargli così la vita.
Questa storia è stata descritta da Javier Cercas, una ventina di anni fa, in un bellissimo romanzo, “I soldati di Salamina” (in italiano con Guanda, come tutti gli altri dell’autore), un libro che ha portato allo scrittore spagnolo, oggi 59enne, fama, riconoscimento, autorevolezza. Ma a pensarci bene, quella scena parla di Fratellanza, con tutta l’ambivalenza ma anche il fascino di questa parola. Fratelli erano Caino e Abele, ma Fratellanza significa prima di tutto non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te e riconoscersi nell’altro, pure – e al limite - in guerra.
La parola Fratellanza, la terza delle tre parole d’ordine della Rivoluzione francese si rivela oggi una chiave per leggere e costruire un futuro vivibile e non da incubo. Per questo ne parliamo con Cercas. Perché è un autore che come pochi altri, in tutti i suoi libri, se ne era occupato. Dice lo scrittore: «Quando si parla di Fratellanza, di primo acchito viene in mente qualcosa di debole, di sentimentale, da kitsch. Ma poi, se recitiamo tutto di un fiato il trinomio: “Liberté Egalité Fraternité” ci accorgiamo che si tratta del valore più importante di tutti i tre».
Sorride e alza leggermente la voce: «Che siamo tutti fratelli e sorelle non è una considerazione morale, è un dato di fatto incontrovertibile». E allora cerchiamo di capire perché lo è. Lui riflette: «Il soldato comunista, repubblicano che salva la vita al nemico si chiama Miralles. Qualcuno mi ha fatto presente che in catalano (regione in cui vive Cercas) la parola “mirall” significa specchio». Ecco, Mirall ha visto nel nemico, se stesso nello specchio. Sembra un’invenzione, ma la storia è vera».
La conversazione prosegue. Cercas insiste a citare “L’impostore”. “L’impostore”, a sua volta, narra di una vicenda scabrosa: un uomo per alcuni decenni si presentava in Spagna come un ex detenuto di un campo di concentramento nazista, e invece si era inventato tutto. «Ha usato il crimine più atroce della storia dell’umanità per essere al centro dell’attenzione pubblica, avere onori, essere corteggiato da belle donne. Un comportamento mostruoso», dice e scuote la testa: «Eppure lui era un essere umano come me e lei».
Obiezione da lettore: quell’uomo suscita pure empatia. Risposta: «Apprezzo il complimento da scrittore, ma in Spagna e soprattutto in Francia la reazione al mio racconto era: “Questo qui è qualcuno fuori dal consesso degli umani”. Ma, appunto, per me è un fratello». Poi, Cercas vuole tornare all’idea che perfino in guerra ci sono momenti in cui l’appartenenza al genere umano trascende l’ostilità e anestetizza l’odio e cita un episodio di “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern, che lui ha conosciuto attraverso le letture di Borges e Bioy Casares (per sottolineare come la letteratura sia universale) e dove il protagonista entra in una “isba” una capanna russa, dice di aver fame, una donna gli dà una scodella di latte e miglio, lui mangia e se ne va indisturbato.
Quel capitolo, è uno dei più toccanti della prosa dello scrittore italiano. È dove viene anche detto: «Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Se questo è successo una volta potrà (…) diventare un costume, un modo di vivere». Infatti, un prozio di Cercas era militare franchista e la sua famiglia in uno sperduto paesino di Ibeharnando nella Estremadura era schierata con i fascisti. Eppure in un suo testo racconta come in quel paesino un falangista abbia salvato la vita all’ex sindaco socialista. «Era mio nonno paterno», precisa secco Cercas.
Fin qui abbiamo citato casi di bontà e di una certa fraternità oltre le divisioni politiche e ideologiche. Possiamo aggiungere che “I soldati di Salamina” è il titolo del libro che il falangista Sánchez Mazas avrebbe voluto scrivere, ma che ha scritto invece l’antifascista Cercas. Lui tradisce commozione e risponde che coloro (tre fratelli antifascisti) che hanno aiutato in seguito il gerarca fascista gli hanno detto: «Tu hai scritto il libro che lui non ha composto. E per me quello è stato un momento molto speciale».
Ma la guerra civile, di solito, è teatro di peggiori crudeltà, proprio fra persone intime, fra i vicini di casa, di pianerottolo verrebbe da dire. E basti pensare non solo alla Spagna, con le scia dei morti, della distruzione, dell’odio e di repressione, oltre gli episodi lodevoli citati proprio perché eccezionali, ma pure alla vicenda della ex Jugoslavia anni Novanta o al caso di un paesino polacco, Jedwabne, dove un giorno del 1941 i vicini di casa chiusero in un granaio tutti gli abitanti ebrei e li bruciarono vivi. Cercas risponde, citando a sua volta, un libro sul genocidio in Ruanda nel 1994, dove a le persone che hanno commesso atrocità dichiaravano: «Noi siamo come te». E quindi? «E quindi è terribile pensare che noi siamo fratelli anche delle persone malvagie».
Così siamo arrivati alla questione di responsabilità per i nostri familiari, veri e immaginari. L’idea della responsabilità comporta anche il sentimento di vergogna. Cercas interrompe: «Mi vergognavo da giovane: per essere un immigrato dal Sud (quando era bambino la famiglia traslocò in Catalogna, n.d.r.) ma anche per le mie origini ideologiche. Poi, indagando sulla vicenda del mio prozio ho capito che tutto era più complesso». Riflette: «C’è una differenza fra colpa e responsabilità. Non mi sento colpevole per i miei antenati ma ovviamente mi considero responsabile, perché ho beneficiato delle azioni che hanno compiuto».
Resta la domanda su fino a che grado di lontananza siamo davvero fratelli. Nei “Fratelli Karamazov” di Dostoevskij, lo “starec” Zosima racconta di un medico che ama tutta l’umanità ma non le singole persone. Cercas non ha dubbi: «La cosa non è complicata ed è molto concreta. La vita collettiva è una dimensione della vita individuale. Io non posso essere felice se gli altri non lo sono. Insisto: la nostra felicità dipende dalla felicità altrui. È l’Abc del pensiero illuminista, Diderot».
In questa conversazione citiamo tanti scrittori che citano a loro volta altri scrittori. Non è casuale. Se volessimo dare una forma geometrica all’idea della Fratellanza, quella forma sarebbe un cerchio. E allora, parliamo di Elias Canetti. Il Nobel per la letteratura in “Massa e potere” riporta le parole di Tucidide che descrivendo la peste ad Atene narra quanto in città non si tenessero più i funerali pubblici, le persone non si toccassero l’una con l’altra e fossero cessati i rituali. Sì. Stiamo parlando di fratellanza ai tempi del Covid-19. Oggi, grazie alla scienza ci sono i vaccini e si intravvede la fine della pandemia. Però è possibile la fraternità a distanza, su Zoom e dispositivi elettronici? E come essere fratelli e sorelle senza toccarci, abbracciarci, senza i rituali pubblici, come teatro, concerti, partite di calcio? Cercas tace per una manciata di secondi, sospira e dice: «Io non vedo mia madre da molto tempo, ma le parlo con il mio smartphone. Il rapporto affettivo non viene meno, cambia la forma. Però quest’altra forma può essere più forte».
Racconta: «Qualche mese fa è morto uno dei miei migliori amici. Ci conoscevamo da quando avevamo otto anni. Ai suoi funerali c’erano pochissime persone, per via della pandemia. Solo i fratelli e gli amici più stretti. Ma proprio perché eravamo pochi, quel funerale ha creato una comunità molto forte. Nelle condizioni normali non sarebbe successo. Grazie alla tecnologia sto parlando in continuazione da casa mia con persone in casa loro, in America Latina. È fratellanza che la tecnologia rende più intensa».
Prosegue: «Non voglio essere ridicolmente ottimista, ma se lei guarda la reazione dell’Europa all’epidemia non può non nutrire speranza. All’inizio c’era regressione nazionalista. L’Italia è stata abbandonata. Ma dopo è cambiato tutto. Il Recovery Fund è stato possibile. Tutti i Paesi si sono assunti la responsabilità l’uno per l’altro. L’orrore ci ha fatto fratelli, al contrario della crisi finanziaria del 2008. Certo, il populismo resta un pericolo. E non sappiamo come i nostri governi useranno i fondi che avranno a disposizione né i tempi delle campagne di vaccinazione. Ma la fratellanza fra gli europei è un fatto storico e culturale. Si tratta di una comunità che ha un passato di guerre e sangue ma che esiste. Lo dimostra la musica, la letteratura, l’arte, l’architettura”.
Il discorso, inevitabilmente, tocca il papa Bergoglio e l’enciclica “Fratelli tutti”. Il pontefice usa senza imbarazzo il termine Fratellanza, che sembrava desueto e come si è detto, debole. «Io non sono cattolico e spesso critico la Chiesa», dice Cercas, «però questa Enciclica è una cosa non solo ragionevole ma importantissima. Nei Paesi a maggioranza cattolica, la parola del pontefice è fondamentale». Aggiunge: «Non è intelligente ignorare il peso enorme di questa parola».
Ride: «Le persone che come per esempio Trump pensano ai soldi e al potere hanno solo paura, non sono felici». La citazione di Trump, per fortuna ormai un ex presidente, riporta al populismo che si basa sulla paura dell’Altro. «Come il fascismo», commenta Cercas, che aggiunge: «La paura però talvolta è ragionevole. Io all’inizio della pandemia ne avevo molta. Ma la paura è arma e strumento dei tiranni. I dittatori dicono: dammi la tua libertà e io renderò la tua vita sicura. È un concetto pericoloso».
Il nostro interlocutore richiama Walter Benjamin, per cui essere felice consiste nel vivere senza paura. E così si giunge al timore dei migranti che non trattiamo da fratelli. Cercas tace per un po’. Poi dice: «Prima di tutto abbiamo una reazione emotiva. C’è gente che muore, ogni giorno. Ma poi abbiamo bisogno di una reazione razionale: una soluzione comune europea al fenomeno migratorio. Non è solo una questione di giustizia. È il nostro interesse aiutare i Paesi da cui la gente fugge. La fratellanza è cura dell’altro. Non è né capitalista né socialista, è qualcosa che mette d’accordo l’antinomia fra Libertà e Uguaglianza”.
E conclude con una risposta alla domanda che riguarda il padre di tutti i romanzi. Don Chisciotte e Sancho Panza sono fratelli? «Certo. I due appartengono a classi sociali diverse, litigano in continuazione e non sono uguali. Ma il momento più bello è la scena di Don Chisciotte morente, quando Sancho Panza gli dice: “Tu non devi morire. Andiamo fra i pastori. Andiamo all’avventura”».
Con questo pezzo inizia un ciclo di incontri con scrittori e intellettuali intorno alla parola “Fraternità”. Per riscoprirne l’attualità, il valore laico, l’universalità