È stato presentato come un festival diverso, il festival dell'eccezione, della resilienza, il festival voluto a tutti i costi per risollevare un Paese piegato che non si vuole dare per vinto. È stato vissuto come un'impresa titanica, sfoggiando aggettivi inneggianti all'eroismo per chi quell'impresa l'ha voluta portare fino in fondo. La sala vuota, gli applausi finti, le restrizioni. Tanti i bastoni tra quelle ruote così oliate da decenni, il telegiornale che entra come un Moloch con il numero delle vittime del giorno, la variante rarissima del virus individuata a Varese e poi tutti in scena, che lo show deve e vuole continuare.
È stato vissuto come un Festival difficile, l'impegno per la leggerezza in un momento in cui nessuno si sente leggero, attaccato con un mastice doloroso alla più cruda delle realtà.
È stato ascoltato con un filo di distrazione, con i cantanti per una volta pescati da un mondo sconosciuto, dai nomi misteriosi, inediti che presentano inediti, rivelando talenti inaspettati. È stato insomma investito del peso del bene collettivo, lo facciamo per voi, lo facciamo per noi.
Ma al tempo stesso è stato un Sanremo come doveva essere, una tradizionale quanto rumorosa parentesi rosa tra un lunedì e una domenica, capace di far convivere nella stessa posizione in classifica Orietta Berti e Madame, alti e bassi, divertimento e imbarazzo, lievità e noia , nostalgia e innovazione. Una maratona immersiva che ha regalato quel senso di meravigliosa inutilità che si pensava perduto, e come recitano Colapesce e Dimartino “Metti un po 'di musica leggera perché ho voglia di niente”.
E di cose inutili se ne sono viste parecchie. Inutile il monologo autoreferenziale di Ibra che parla in terza persona ("Tutti conoscevano già Zlatan prima di questo festival) e poi esce dalla parte del gigante cattivo ma regala perfidamente la maglia del Milan ai due interisti; inutile la battaglia ostinata di Fiorello contro il politicamente corretto quando come un Salvini qualsiasi con Floris si stupisce: «Ma quindi non posso dire niente perché qualcun si offende?» «Eh no».
Inutili le lungaggini ostinate ai limiti della cattiveria, che fanno cantare “alcune canzoni” a Zarrillo, Fogli e Vallesi alle 2.06 del mattino in attesa del vincitore. Inutili le rimostranze del Codacons che se la prende con Chiara Ferragni che invita i suoi 23 milioni di follower a votare il marito, e grida alla vittoria truccata quando invece vincono i Maneskin, il gruppo dei bellissimi, che ha smosso il palco colpi di rock.
Inutile anche il direttore Coletta che definisce eroica questa edizione perché le parole hanno sempre il loro peso e l'unico vero eroe è Max Gazzè vestito da Superman. Inutile, ma esilarante, l'incombente presenza di Giovanna Civitillo, che incoraggia il suo Patato Amadeus, presenzia quel capolavoro dell'assurdo del “Prima Festival” e aleggia in vestaglia nella pubblicità delle navi da crociera. Inutili le gag sulle parole incomprensibili dell'opera lirica, sulla noia del balletto classico dove i cigni non muoiono mai.
Bellissime e sontuose le provocazioni di Achille Lauro, ma inutili se fatte in qualità di super-ospite, annunciate in pompa magna. Inutili le voci stonate di cantanti a caso e inutile lo stupore di fronte alla meraviglia di Ornella Vanoni che scende la scala, tiene il palco, sfodera intelligenza e ironia senza sbagliare una nota, infischiandone della sua età pronta a restare ostinatamente nel futuro. Inutile far finta che gli ascolti non sono importanti perché alla fine, bando alle ipocrisie, in una gara c'è sempre un vincitore ma inutile voler mostrare che questa edizione non sia stata un successo, dal momento che per cinque giorni è andato in scena un sequestro di persona collettivo che ha monopolizzato social, stampa e telecomandi. E la distrazione di massa in certi giorni ha anche il suo perché.