La sua è una missione: vivere per raccontare. È così da allora, dal colpo di Stato cileno dell’11 settembre 1973. Ariel Dorfman, 80 anni il prossimo anno, lavorava al Palazzo de La Moneda con Salvador Allende prima del golpe di Pinochet. Ma il giorno dell’attentato non era lì. Per questo si salvò. E forse non è un caso. Ecco perché in tutti questi anni non ha fatto altro che scrivere: saggi, romanzi, testi teatrali, poesie, articoli di giornali, memorie, sceneggiature. Ha denunciato le atrocità che si celano dietro la dittatura, i morti, le violenze, a partire da “La morte e la fanciulla”, forse il suo testo più famoso, scritto nel 1990. È la storia di una donna che sequestra il medico da cui crede di essere stata torturata e violentata sulle note di un quartetto di Schubert, “La morte e la fanciulla”, e lo processa nel soggiorno di casa sua. Una storia paradossale, inquietante eppure necessaria, sul difficile passaggio dalla dittatura alla democrazia. «Sapevo che per riavere indietro il nostro Paese dovevamo scendere a compromessi», dice Dorfman, oggi cittadino americano: «Dopotutto, non era una situazione in cui la dittatura, come è accaduto in Italia, era stata sconfitta militarmente. Pinochet aveva ancora un potere enorme».
Allestito per la prima volta 30 anni fa a Londra e poi nei teatri di tutto il mondo, il 12 e il 13 giugno verrà rappresentato a Napoli al Campania Teatro Festival, diretto da Ruggero Cappuccio, con la regia di Elio De Capitani, che lo mise in scena già nel 1998, tre anni dopo la versione cinematografica di Roman Polanski. Ad interpretare i tre personaggi saranno Marina Sorrenti, Caudio Di Palma, Enzo Curcurù. Produzione Campania Teatro Festival, Teatro Stabile di Napoli, Teatro dell’Elfo.
Professor Dorfman, “La morte e la fanciulla” affronta temi che ricorrono in molte sue opere e che hanno attraversato e segnato la sua vita. Forse Paulina cerca di dirci proprio questo: ricordiamoci cosa è successo durante la dittatura. Lei crede che la gente dimentichi facilmente?
«Noi tendiamo a dimenticare e a ricordare male a volte per comodità, altre volte per sopravvivenza. Paulina non può dimenticare quello che le è stato fatto, anche se tutti intorno a lei (attraverso la voce del marito Gerardo, presidente di indagine di una Commissione di inchiesta sui desaparecidos) le chiedono di andare avanti con la sua vita. Il pericolo per Paulina è che, facendo a quell’uomo quello che lui le ha fatto, reiteri il ciclo di violenza. Solo quando la sua memoria personale sarà parte della memoria collettiva, lei potrà guardare al futuro. Ora, perché sono ossessionato da questi temi? Perché ho scelto di rendere significative certe esperienze trasformandole in parole, in modo tale che con l’atto stesso di comunicarle tutti possiamo sconfiggere il trauma e, soprattutto, sconfiggere la solitudine e l’oblio, che sono fratelli gemelli della morte».
Cosa le piace di Paulina e cosa avete in comune?
«Sono sempre stato dalla parte del più debole e attratto da forti protagoniste femminili. In parte perché mia moglie, Angélica, è uno straordinario esempio di donna. Ma anche perché quando le donne si ribellano ciò che viene messo in discussione è il sistema stesso. Paulina è una donna straordinaria, ma allo stesso tempo molto problematica. Amo il suo carattere ribelle e resistente, e anche il suo modo di essere ironica, ma soprattutto più intelligente dei due uomini che pensano di esserle superiori. Il fatto che sia capace di sbagliare la rende, credo, più intrigante. Questo è forse ciò che ho in comune con Paulina e con tante altre donne da me create: spero di essere umano e complesso come loro».
Nella sua autobiografia scrive: «C’è stato un giorno nel mio passato, un giorno di molti anni fa, a Santiago del Cile, in cui sarei dovuto morire e non sono morto». Cosa ricorda più di ogni altra cosa di quell’11 settembre del 1973?
«Ricordo il bombardamento della Moneda, il palazzo presidenziale, e la morte di Salvador Allende, quella prima morte che ha annunciato la fine della democrazia e del nostro meraviglioso esperimento: voler tentare di costruire una società giusta senza violenza. Quel giorno avrei dovuto essere alla Moneda, perché lavoravo lì da mesi. Per una serie di incidenti incredibili e fortunati, sono stato risparmiato. Perché è successo proprio a me? Il ministro che ha cancellato il mio nome dalla lista di coloro che avrebbero dovuto essere chiamati in caso di emergenza mi disse, molto più tardi, di averlo fatto, “perché qualcuno doveva raccontare quella storia”. Da allora ho cercato di rimanere fedele alla missione, sperando che la vita che mi era stata di nuovo data potesse servire a raccontare molte storie che, altrimenti, non sarebbero mai state narrate».
Della sua condizione di esule ha scritto ampiamente in due libri di memorie – “Heading South, Looking North” (Verso sud, guardando a nord) e “Feeding on Dreams” (Nutrirsi di sogni) – ma alla fine come è arrivato ad accettare la sua esistenza ibrida, bilingue, multiculturale?
«Forse ci sono riuscito perché ho avuto la fortuna di trovare una casa nella letteratura e il senso di stabilità e permanenza in Angélica, mia moglie da oltre 55 anni. La parola per dire “casa” in spagnolo è “hogar” che ha la stessa origine di “fuego”, il fuoco nel focolare. Quindi la mia casa è lì dove il mio cuore può ardere d’amore: questo è quello che ho imparato dalla mia condizione di esule».
I suoi libri sono stati censurati e messi al rogo da Pinochet, mi riferisco a “Come leggere Paperino”. Ma era davvero Paperino il problema?
«Quel libro è stato bruciato pubblicamente in televisione! Guardando, non potevo fare a meno di chiedermi cosa sarebbe successo all’autore se i militari mi avessero catturato. Il libro aveva fatto scandalo in Cile, non solo perché andava contro i valori tradizionali e sottolineava il modo in cui la Disney aveva colonizzato le nostre menti, ma soprattutto, penso, a causa del suo tono insolente, gioioso e sarcastico. Paperino era solo un simbolo usato per aiutare le persone comuni a riflettere sulle responsabilità. Penso che ci siano ancora alcune persone che vorrebbero vederlo bruciato».
Lei ha sempre scritto nel corso della sua vita, spaziando fra vari generi. Tornando al teatro, è stato un caro amico di Harold Pinter. Come vi siete conosciuti?
«Il mio primo libro, alla fine degli anni Sessanta, analizzava la sua opera. Tuttavia, non ci eravamo mai visti. E neanche in esilio era mai capitato. È stato proprio “La morte e la fanciulla” a farci incontrare, poiché Pinter era presente alla prima lettura del testo, a Londra alla fine del novembre 1990. Ci siamo subito piaciuti, anche con sua moglie Antonia, e negli anni siamo diventati migliori amici. Ci ha perfino dedicato delle poesie, ad Angélica e a me, e ci ha chiamato poche ore dopo aver ricevuto il Nobel. Aveva anche in programma di mettere in scena il mio testo “Purgatorio”, ma nel frattempo la sua malattia gliel’ha impedito. Harold ci manca molto».
In Italia è uscito di recente “Konfidenz” (Edizioni Clichy), scritto nel 1994 e di cui ha appena ceduto i diritti cinematografici, un romanzo che ricorda nel suo impianto il teatro dell’assurdo...
«Vivo spesso situazioni che finiscono per essere centrali nei miei libri. A metà degli anni Settanta, quando eravamo esiliati a Parigi, ospitavamo giovani attivisti cileni che stavano per andare a studiare nei Paesi socialisti ma che dovevano inventarsi un soggiorno di qualche mese in Francia per aggirare i controlli della polizia segreta di Pinochet. Fui incaricato di censurare la loro corrispondenza per assicurarmi che non trapelasse nessun dettaglio della loro vita privata. Non avrei dovuto conoscere la vera identità di quei militanti, ma uno di loro si rivelò essere stato un mio studente. Mi mostrò, in lacrime, una foto della sua fidanzata a Santiago raccontandomi quanto fosse doloroso mentirle. Più tardi, quando ci lasciò, immaginai quanto sarebbe stato facile per un uomo nella mia posizione abusare del potere. Per anni quella storia mi ha perseguitato e alla fine ho concepito una trama in cui quell’uomo innamorato di Barbara - una donna forte che scoprirà la sua vera identità di fronte alla distruzione in cui si è specializzato il nostro secolo - escogita un piano per portarla a Parigi. Ma li attende un tragico destino».
Cosa le piacerebbe che rimanesse dalla lettura dei suoi libri?
«Se dovessi scegliere una sola parola, sarebbe senza dubbio speranza».