La cartoonist che racconta Roma “col velo”, Amir Issaa, Chef Kumalé. Per la festa che celebra i mille volti dell’Italia multietnica. Tra musica, teatro e showcooking. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba

L'appuntamento è per il 27 agosto al Porto Antico di Genova. Inizia l'ultimo venerdì del mese il Festival Suq, kermesse multiculturale, multietnica, multidisciplinare che da ventitré anni trasforma il cuore della città in una grande festa piena di proposte. Il tema di quest'anno lega la discussione sulle migrazioni al Sommo Poeta italiano, che nel Purgatorio scrive appunto: “Noi siam peregrin come voi siete”. Il verso ispirato alla sua esperienza di esule è uno dei pilastri dello spettacolo “Il mio canto libero” (Compagnia del Suq, da un progetto di Paola Bigatto), antologia dantesca in arabo, spagnolo e genovese, oltre che in italiano.

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Dal Dante “peregrino” parte il filo rosso della manifestazione ideata e diretta da Carla Peirolero, che fino al 5 settembre legherà dieci giorni di festival, sette spettacoli teatrali, e poi musica, dibattiti, workshop, musica (Pietra Montecorvino, Mamma li Turki e Dj Nio) e showcooking con Chef Kumalé (programma e informazioni su www.suqgenova.it). Tra i libri di cui si parlerà, uno dei titoli più sorprendenti suona così: “Il mio migliore amico è fascista” (Rizzoli). Ne abbiamo parlato con l'autrice, Takoua Ben Mohamed, romana di origine tunisina, illustratrice e graphic journalist (“Sotto il velo”, “La rivoluzione dei gelsomini”) che con il rapper Amir Issaa e Mohamed Ba (autore e attore di “Come diventare africani in una notte”) sarà protagonista del dibattito su “Fumetti, rap e teatro, l’intercultura che funziona”, condotto da Oliviero Ponte di Pino.

 

Come nasce il libro, e come nasce il titolo?

«È un titolo un po’ provocatorio ma la storia è vera – anche se non è andata esattamente così. Io e il Marco di cui racconto non eravamo amici all’inizio ma solo compagni di scuola. Poi ci siamo ritrovati nello stesso banco, siamo stati costretti a stare vicini anche se non ci sopportavamo. Lui era un tipo molto provocatorio, mi diceva cose offensive, e io lo consideravo un fascista: anche se a 14 anni non sai davvero cosa voglia dire essere fascisti. Siamo stati costretti a crescere insieme e a poco a poco, anche per effetto di avvenimenti che racconto nel libro, di problemi di bullismo e di altri episodi spiacevoli che mi sono capitati, abbiamo imparato a conoscerci, a superare i pregiudizi - i suoi e i miei - e alla fine è diventato davvero uno dei miei migliori amici».

 

Lei porta il velo fin da bambina – nel libro racconta come è nata la sua decisione - e questo colpisce molto pubblico e giornalisti. Cosa significa il velo per lei e cosa pensa che invece significhi per chi non è musulmano?

«Non ho mai voluto spiegare perché porto il velo perché è una scelta personale, intima: non chiederei mai a un sikh perché ha deciso di portare un tubante, o a un cristiano perché ha una collanina con la croce. Se faccio vedere il velo nei miei fumetti è perché parlo della società in cui vivo, cerco di calare la mia immagine nella società italiana di oggi rendendo però la storia che racconto il più personale possibile. In effetti però mi sembra che il pubblico e i media siano abbastanza ossessionati dal velo. Quando ho iniziato a pubblicare mi definivano “la ragazza con il velo”, ed era come se tutti gli anni di studio, l’accademia, i sacrifici che ho fatto per diventare quella che sono fossero annientati dall’immagine di quel pezzo di stoffa».

 

C'è anche una diffidenza femminista contro il velo: nel suo libro questo aspetto è rappresentato da una professoressa che decide di farle un predicozzo sui diritti delle donne...

«Fissarsi sul velo significa sminuire la persona che hai davanti: mi sminuisce in quanto donna, in quanto musulmana, in quanto italiana di seconda generazione, in quanto figlia di migranti… Ma prima di tutto mi sminuisce in quanto donna, donna a cui vengono appiccicate tutte le definizioni che ho elencato poco fa. Spiegare il significato religioso del velo non è un compito mio, bisogna parlarne con teologi, con imam. Io sono solo una ragazza qualunque che fa fumetti e che rappresenta se stessa nei suoi libri, come usa nel genere di fumetto che faccio, il graphic journalism».

 

Ha scelto il graphic journalism, un genere che in Italia fa più fatica ad affermarsi rispetto ad altri paesi, perché?

«Si dice spesso che in Francia e Inghilterra il graphic journalism abbia più successo, ma l’Italia dovrebbe andare fiera dei suoi autori: ha moltissimi bravi scrittori, anche se non sono tutti famosi come Zerocalcare… Basta prendere il catalogo di Becco Giallo o di Tunue per trovare libri e nomi di grande livello. Se non si notano abbastanza è perché il fumetto è sempre stato sottovalutato, non lo si considera letteratura né arte né giornalismo. E poi se scrivi in francese o in inglese hai un mercato più esteso: difficilmente gli autori italiani vengono tradotti all’estero, almeno finora».

 

E questi autori italiani hanno ispirato il suo stile?

«In realtà sono arrivata al graphic journalism per caso: la mia passione era l’animazione, quando ho iniziato a scrivere storie non sapevo neanche bene quello che facevo! Già a dieci anni o poco più, quando tornavo dalle esperienze che facevo con il volontariato, a casa raccontavo a fumetti le storie che mi avevano colpito, quelle delle persone che avevo incontrato. Le raccontavo a disegni e tenevo queste storie per me. Poi ho cominciato a farle conoscere, i social network mi hanno dato visibilità e sono arrivata a pubblicarle. Ma non credo di essere stata influenzata da altri autori, semplicemente perché non li conoscevo. Spesso per esempio mi chiedono se mi sono ispirata a Marjane Satrapi: è bravissima, è un onore essere accostata a lei, ma io “Persepolis” l’ho letto molto dopo aver iniziato a scrivere storie a fumetti!».

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