Il film (“Evolution”, prodotto da Martin Scorsese) scava nei ricordi familiari di Kata Wéber, sceneggiatrice e compagna del regista ungherese Kornél Mundruczó. Tre epoche e tre luoghi per mettere in scena il perpetuarsi del razzismo in forme e modi diversi

Tre capitoli per ricordare, ma anche per riflettere sul peso talvolta insostenibile che la memoria della Shoah consegna alle nuove generazioni. Tre epoche e tre luoghi per mettere in scena il perpetuarsi del razzismo in forme e modi diversi. Tre lunghi piani sequenza per interrogare lacerazioni passate e presenti. Con un bellissimo bacio finale tra 12enni a ricordarci che l’intolleranza oggi si annida anche nella dilagante cultura del sospetto (chi ha più il coraggio di filmare l’amore innocente tra due ragazzini?).

In sala dal 27 gennaio dopo aver aperto il Trieste Film Festival, sempre attento alle frontiere politiche e morali, “Quel giorno tu sarai” (“Evolution”), scava nei ricordi famigliari di Kata Wéber, sceneggiatrice e compagna del regista ungherese Kornél Mundruczó, sul filo di una memoria che attraversa le generazioni trasmettendo come una condanna ricordi e rimozioni, spinte identitarie e inevitabili ripulse.

Non è una tecnica nuova. Chi ha visto il bel “Pieces of a Woman” (prodotto come questo da Martin Scorsese), sa che per Mundruczó e Wéber, attivi a teatro oltre che al cinema, anche il dramma più privato si proietta sul palcoscenico della Storia, e viceversa. Là era la morte improvvisa di una neonata a innescare una spirale di scontri in famiglia che ci portava dalla Boston di oggi alla Germania della soluzione finale. Qui invece tutto parte da una bambina ritrovata miracolosamente viva in un lager (il surreale e folgorante primo capitolo, con i suoi dettagli “tricologici”, aggiunge note inedite alla rappresentazione dell’orrore).

È quella bambina, oggi una nonna con i primi sintomi di demenza (la grande attrice ungherese Lili Monori), che ritroviamo nel secondo capitolo. Un lungo scontro fra quattro mura, a Budapest, tra l’anziana Eva e sua figlia Lena (Annamária Láng). Con la prima disperatamente aggrappata ai suoi ricordi orribili (e talvolta inaffidabili) di sopravvissuta, dunque decisa a non cedere alla retorica della riconciliazione (agghiacciante l’episodio della rivista tedesca di pesca sportiva che vuole bandire le carpe dalle proprie pagine perché “pesci ebrei”). Mentre la seconda le rinfaccia tutto ciò che ha passato, fin dall’infanzia, come figlia di una vittima della Shoah («Non voglio essere una sopravvissuta: voglio vivere»). In un incessante duello famigliare complicato dalla politica del governo ungherese che grazie a miserabili cavilli blocca restituzioni e risarcimenti ai sopravvissuti all’Olocausto.

Nel terzo capitolo, il più emozionante, il 12enne Jonas, figlio di Lena e nipote di Eva, combatte invece su due fronti con la leggerezza della sua età. Di qua le angosce legittime ma oppressive di una madre autoelettasi custode della memoria e dell’identità. Di là il bullismo dei compagni e le ipocrisie di una società (leggi la scuola) che tra incidenti sospetti e feste religiose non proprio pluraliste, finge di non vedere il ritorno di intolleranza e razzismo. Ritorno cui Jonas e la sua coetanea turca Yasmin (Padmé Hamdemir) opporranno, con molti sguardi e poche parole, l’arma più vecchia del mondo. L’amore.

 

In anteprima al Palazzo delle Esposizioni di Roma il 26 gennaio per il programma dedicato al Giorno della Memoria

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