Jim Al-Khalili: «Il primo insegnamento della scienza? Il coraggio di ammettere i propri errori»

Essere pronti a rivedere quello che si è imparato. E felici di condividere quello che si sa. Il grande divulgatore anglo-irakeno spiega il suo metodo di lavoro. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

L’appuntamento con Jim Al-Khalili è per sabato 26 novembre al Parco della Musica. È uno dei più importanti tra gli incontri con scienziati di tutto il mondo in programma per il Festival delle scienze. Che per la sua diciassettesima edizione raduna a Roma (ma con molti eventi anche in streaming e quindi disponibili ovunque) 120 ospiti impegnati tra la ricerca scientifica e la divulgazione.

 

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E proprio della divulgazione è un maestro Al-Khalili, un fisico teorico (insegna all’università del Surrey) prestato alla televisione, probabilmente il volto più famoso delle trasmissioni scientifiche in Gran Bretagna. In Italia i suoi libri sono pubblicati da Bollati Boringhieri: il più recente, “Le gioie della scienza”, è un invito ad applicare il metodo scientifico ad ogni occasione della vita quotidiana. Nato a Baghdad (il suo vero nome non è James ma Jamil, “bello”) Al-Khalili ha lasciato l’Iraq per la Gran Bretagna, il paese di sua madre, a 17 anni: per questo la prima domanda di questa intervista si riallaccia all’ambiente in cui è cresciuto e ha svolto i suoi primi studi.

Ultimamente i ricercatori stanno rivalutando l’importanza degli studiosi arabi nella storia della scienza. A questo tema lei ha dedicato un lungo documentario della Bbc, “Science and Islam”. Il fatto di essere nato in Iraq l’ha messa in contatto più stretto con quel mondo?
«Penso che essere nato in Iraq mi abbia semplicemente reso più consapevole di questo periodo storico che è in gran parte sconosciuto in Occidente. Non sono religioso (mia madre era cristiana e mio padre era un musulmano agnostico) e quindi non sono stati certo motivi religiosi che mi hanno spinto a raccontare queste storie. Né penso che fosse dovuto a qualche motivo culturale. Sono prima di tutto uno scienziato e il mio interesse è in come la conoscenza scientifica si sviluppa nel corso della storia e si diffonde attraverso le culture, le civiltà. Quello che ho voluto condividere con i lettori erano principalmente storie non raccontate che fanno parte del patrimonio condiviso dell'umanità».

 

Lei è in famoso divulgatore, e riesce a rendere comprensibili concetti molto complessi anche a chi non ha studiato fisica. La capacità degli scienziati di farsi capire dal pubblico è particolarmente importante in un periodo in cui l’opinione pubblica sembra lasciarsi affascinare da teorie completamente false. C’è un segreto per riuscire a farsi capire e apprezzare da un pubblico di non addetti ai lavori senza cadere nella semplificazione eccessiva?
«Il motivo principale che mi spinge a divulgare la scienza è perché mi piace farlo: non è un desiderio altruistico di insegnare qualcosa al pubblico. Vedere qualcun altro capire qualcosa del mondo mi dà lo stesso piacere che provo quando lo scopro da me. Lo dico sempre: che senso ha imparare qualcosa di affascinante se non lo racconto agli altri? Quanto al segreto per una buona comunicazione, che si tratti di scienza, arte, storia, ecc., è entrare in empatia con il proprio pubblico, vedere l'argomento dal punto di vista del pubblico piuttosto che dal mio. Mi chiedo cosa sanno e cosa penseranno di un certo concetto dato che non hanno le conoscenze di base che ho io. Quindi uso il linguaggio con attenzione e faccio appello a ciò che penso funzionerà meglio in termini di spiegazione».

 

In un capitolo del suo ultimo libro, "Le gioie della scienza" lei invita a non aver paura di cambiare idea. Le sarà capitato di dover ammettere un errore: vuole raccontarcelo?
«Mi succede in continuazione: è così che funziona la scienza! Se gli scienziati non ammettessero i loro errori o non cambiassero le loro opinioni, la scienza non progredirebbe mai. A differenza della politica, ad esempio, ammettere gli errori nella scienza è una forza piuttosto che una debolezza. Qualche anno fa stavo girando un documentario per la Bbc sulla forza di gravità. Dopo aver finito di filmare ci siamo resi conto che una spiegazione che avevo dato riguardo alla teoria della relatività di Einstein era sbagliata. Piuttosto che limitarmi a rifare quelle sequenze, ho insistito per dire nel film che avevo commesso un errore e che avevo dovuto correggerlo. Molte persone hanno pensato che io sia stato coraggioso a farlo, ma non ha niente a che fare con il coraggio. È proprio così che facciamo scienza: sbagliamo le cose e impariamo dai nostri errori e non c'è da vergognarsi in questo».

 

Lei scrive che Keats accusava Newton di aver ucciso la poesia dell’arcobaleno, eppure si continuano a scrivere poesie sull’arcobaleno e anche sulla luna, dopo che l’uomo ci è arrivato (e ci è arrivato davvero, al contrario di quello che credono i complottisti). Ci può dire qualcosa sulla forza della poesia, e sulla sua capacità di “sopravvivere alla scienza”?
«La poesia e la scienza sono due modi diversi di descrivere il mondo. L'umanità ha bisogno di entrambi. Ma ognuna delle due parti si è resa colpevole di criticare l'altra, e questo è un peccato. Quello di Keats e Newton è un esempio di un poeta che non capisce la scienza. L'esempio opposto è quando al famoso fisico britannico è stato chiesto di confrontare scienza e poesia. Ha detto che nella scienza prendiamo un concetto complicato e cerchiamo di renderlo il più semplice possibile, mentre la poesia prende un concetto semplice e lo rende il più complicato possibile. Quindi, entrambe le parti hanno molto da imparare».

 

Chiuderò con una domanda cattiva. Anche la bibliografia del suo libro, come praticamente tutte quelle dei saggi che provengono da Gran Bretagna o Usa (e parlo di saggi su qualsiasi argomento: anche sulle cattedrali francesi o su Galileo Galilei), contiene solo libri provenienti da quella che Amitav Gosh chiama “Anglosfera”. Non teme di perdersi qualcosa? Per fare un solo esempio, i libri di Giorgio Parisi sul volo degli storni nel cielo di Roma…
«Touché! Sì, certo, ha ragione. In un certo senso questo è un segno di pigrizia da parte dello scrittore (io), ma è anche effetto della scarsa disponibilità di traduzioni in inglese di scrittori in altre lingue. Ovviamente leggo e anzi cito gli scritti di scienziati non britannici, per esempio Carlo Rovelli, che è però estremamente noto a livello internazionale. Ma devo impegnarmi di più, lo so».

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