Alle radici del sound della giovane cantautrice. Frutto di una coppia che si incontra a Kiev, di una musicassetta in arabo, di uno zio maestro della musica caraibica. E del conservatorio a Venezia. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

Solo voce e chitarra: ma quale voce, e quale chitarra! Sorah Rionda arriva sul palco del Teatro Cimarosa di Aversa come una dei tanti ospiti del Premio Bianca d’Aponte per cantautrici, ma appena la sua performance inizia si sente che ha qualcosa di speciale. Per quei virtuosismi vocali che uniscono “trova” cubana e vocalizzi arabi e per la tecnica chitarristica, dove lo studio in conservatorio (è diplomata al Benedetto Marcello di Venezia) si sovrappone alle radici della musica folk caraibica (viene da una famiglia di musicisti, a partire dallo zio Graciano Gómez Vargas, famoso compositore cubano, e suona anche banjo, liuto e arciliuto, flauto barocco, e cornamusa). Un mix che ha conquistato la giuria della critica che le ha assegnato il Premio Parodi (il più importante riconoscimento italiano per la world music) e il Bianca d’Aponte International. L’abbiamo intervistata per farci raccontare come nasce il suo mix musicale, tanto unico quanto riuscito.

 

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Come ha iniziato a fare musica? È venuto prima il canto o la chitarra?
«Ho iniziato a suonare la chitarra a undici anni, a Cuba, ma cantavo già prima, in coro. All’inizio ho seguito l’esempio di mia nonna, che cantava per me con la chitarra di mio prozio Graziano Gómez, importante esponente della trova tradicional cubana».

E il legame con il mondo arabo da dove arriva?
«Mio padre è marocchino, ma io l’ho conosciuto solo quando avevo 27 anni. I miei genitori si erano conosciuti a Kiev, in Ucraina, che era allora Unione Sovietica. Studiavano all’università, lei design e lui relazioni internazionali. Io sono stata concepita a Kiev, ma era il 1989, l'indipendenza era alle porte e quindi la situazione all'improvviso divenne molto tesa anche per i rapporti con i loro paesi d'origine: lui è tornato in Marocco per fare dei documenti, lei è dovuta ripartire per Cuba e si sono persi di vista. A me è rimasto solo un ricordo di mio padre: una musicassetta – una cassetta bianca con una scritta rossa in arabo e dentro tante musiche bellissime. Mia madre me la metteva come ninna nanna, la sera, oppure ballavamo insieme. Sognavo di conoscerlo ma non è stato facile ritrovarlo: solo nel 2017 sono riuscita ad andare in Marocco e ho conosciuto lui, la sua famiglia, i miei fratelli. Ero partita da Cuba con una famiglia di cinque persone, sono stata in Marocco e ora in famiglia siamo in cinquecento!»

Le sue canzoni hanno un sound evidentemente cubano, ma sono ispirate anche alla musica araba?
«Ci sono tracce dappertutto, anche nel mio primo lavoro, autoprodotto, che si intitola “Hebra de luz”, filo di luce. Ma soprattutto “Renacer” la canzone che dà il titolo al mio secondo album, uscito per Artis Records , è legata al Marocco. È nata in aereo mentre andavo da mio padre: avevo tanto sentito parlare del “mal d’Africa” e l’ho provato davvero! Quando sono scesa dall’aereo ho sentito nascere dentro di me un sole, nel ricordo delle melodie che sentivo da bambina e che avevo ritrovato durante il volo. Ora sto lavorando sui canti yoruba cubani e sulle musiche di compositori come Leo Brouwer, che ha scritto melodie bellissime per chitarra e voce poco note in Italia. Vorrei presentarli in concerto come solista, mentre le mie canzoni le suono con un trio (Thomas Sinigaglia alla fisarmonica e Luca Nardon alle percussioni, n.d.r.)».

E il suo modo così originale di usare la voce è più legato a Cuba o alle musiche arabe della musicassetta che ha accompagnato la sua infanzia?
«Sono felice che piaccia il mio modo di cantare: all’inizio ho avuto alcune critiche, ma ho continuato a cantare così perché a me piace molto, ne sono fiera e non mi sono lasciata buttare giù da chi non lo apprezza. È una cosa che ho sviluppato col tempo: ho studiato a lungo canto a Cuba e continuo a farlo da quando, nel 2013, mi sono trasferita qui in Italia. Però, a differenza della chitarra, non ho una formazione accademica. Per questo credo che sia ancora più forte l’influenza delle mie radici cubane. Quanto alla musica araba non so: è vero che c’è un legame, si sente, ma non l’ho imparato da nessun insegnante, forse è nato da un istinto interiore…»

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