Mario Martone porta in scena un testo di Goliarda Sapienza, “Il filo di mezzogiorno”. Di grande attualità. Con Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco. Autobiografia di una caduta. E invito a riflettere sulla fragilità e sul nostro bisogno degli altri

Ci sono due ambienti uguali e speculari sul palcoscenico, due salotti arredati in modo identico fin nei minimi particolari e separati soltanto da una invisibile parete di cristallo che, a poco a poco, va in pezzi, così come sono destinate ad andare in pezzi le resistenze della protagonista. Questo spazio è lo spazio della parola, lo spazio del dolore ma anche della speranza, perché è proprio tra quelle mura che si svolge la terapia psicoanalitica e che si cerca il filo della guarigione.

 

È il resoconto di una cura, quello messo in scena da Ippolita di Majo e Mario Martone nello spettacolo “Il filo di mezzogiorno”, tratto dal libro omonimo di Goliarda Sapienza, che ha debuttato a Napoli e sarà in tournée in molte città italiane fino alla fine di giugno.

 

Pubblicato per la prima volta nel 1969 e riedito dalla Nave di Teseo nel 2019, “Il filo di mezzogiorno” è il racconto di una analisi, quella che Goliarda Sapienza intraprese per tre anni a partire dal 1962 con lo psicanalista Ignazio Majore, dopo un episodio depressivo che la portò a un tentativo di suicidio attraverso l’ingestione di sonniferi. In seguito a questo episodio la scrittrice venne internata in una clinica romana e sottoposta a numerosi elettroshock che, lungi dal restituirle l’equilibrio mentale, le causarono la perdita di interi blocchi di memoria. Molti anni della sua vita sparirono dai suoi ricordi: la sua attività di scrittrice, la relazione con il compagno Citto Maselli, la casa, addirittura, che inizialmente al suo ritorno le sembrava estranea.

 

È l’autobiografia di una caduta ma è soprattutto la storia di una convalescenza, di quel lento ma progressivo ritorno alla vita fatto di slanci in avanti e rovinose ricadute, di momenti di fragilità in cui sembra di essere riacciuffati dal buio e piccoli ma inesorabili progressi.

 

Né più né meno di quello che succede a noi, oggi, ai nostri tempi. Tempi in cui abbiamo dovuto sperimentare una malattia globale e in cui stiamo ancora attraversando un lungo e non sempre lineare processo di guarigione da un male in cui siamo tutti immersi e da cui possiamo uscire soltanto sommando gli sforzi, accomunati - volenti o nolenti - da un medesimo destino che ci apparenta a ogni latitudine.

Ma se il “male di vivere” del Novecento si è trasformato in “malattia del vivere” degli anni Duemila facendoci riscoprire le nostre fragilità, è anche vero che l’investigazione sui bisogni del corpo (che abbiamo ripreso ad auscultare e osservare in una perpetua attività di auto-anamnesi) non deve far sottovalutare quelli della mente. Il diritto alla salute, che siamo tornati a invocare come prioritario tra quelli garantiti costituzionalmente, non riguarda solo l’apparato respiratorio, quello motorio o quello cardio-circolatorio. La pandemia, nelle sue diverse fasi, ha visto e vede aumentare sempre più il bisogno di cura della psiche, oltre che del corpo, soprattutto nei più giovani, sui quali le regole del distanziamento hanno avuto conseguenze più gravose, ai quali si è chiesto e si continua spesso a chiedere un maggiore sacrificio.

 

Nel “Filo di mezzogiorno” Goliarda Sapienza affronta con coraggio e sincerità l’esperienza della cura della psiche e si offre ai lettori con generosità, quasi con candore, mostrandosi ancora una volta per quello che è: una donna libera. Si affida alla terapia prima con qualche resistenza, poi con curiosità e infine con fiducia via via crescente, consapevole del fatto che quel medico che la sta “smontando pezzo per pezzo” portando alla luce “vecchie piaghe cicatrizzate da compensi” e “frugandoci dentro con bisturi e pinze” è uno dei più stimati psicoanalisti del suo tempo. È cosciente anche di vivere un’esperienza da privilegiata, perché – ieri come oggi – affrontare un percorso di psicoterapia comporta dei costi non indifferenti, che non tutti possono sostenere. E, proprio a questo proposito, è davvero deludente che non abbia trovato posto, nella legge di bilancio appena varata in Parlamento, una misura necessaria come il “Bonus salute mentale”, nonostante fosse un provvedimento appoggiato da diverse aree politiche. Un incentivo che avrebbe permesso a tanti di accedere a un percorso di psicoterapia presso uno studio privato, dal momento che le strutture pubbliche hanno difficoltà a gestire tutte le richieste, che sono aumentate soprattutto negli ultimi anni, sia da parte degli adulti che dai ragazzi, anche al di sotto dei diciotto anni.

 

Forse per questo le parole di Goliarda Sapienza, portate in scena da Donatella Finocchiaro e Roberto de Francesco - nei ruoli della scrittrice e del suo analista - bruciano gli occhi di lacrime e investono le vene di una profondissima emozione, perché in quel salotto ci siamo noi. Perché quei due ambienti speculari e contrapposti che rappresentano lo spazio della coscienza e quello dell’inconscio, sono anche casa nostra: quella in cui abbiamo trovato rifugio e carcere nei giorni del primo lockdown, quella in cui abbiamo imparato a lavorare, studiare, fare ginnastica in attesa che arrivasse il vaccino, in attesa che l’onda del contagio si sgonfiasse, in attesa di tornare alla normalità o di capire qual è la normalità che ci attende. Sulla scena, insieme a Goliarda e al suo analista, ci siamo anche noi: c’è il nostro bisogno di essere ascoltati, compresi, contenuti e, soprattutto, amati. Ed è questo che succede anche sulle tavole del palcoscenico e tra le pagine del libro. Tra i due poli della relazione terapeutica nasce, come un vulnerabilissimo fiore in un deserto di paure, l’amore. È quello che non dovrebbe mai accadere tra terapeuta e paziente, è quello che l’analista dovrebbe essere capace di gestire come una forma di contro-transfert rispetto al transfert del paziente. Ma qui - nel libro e sulla scena - siamo agli albori della psicoterapia in Italia, si procede per tentativi e sperimentazioni in una analisi che, non a caso, viene definita “selvaggia”, una pratica non del tutto ortodossa che alcuni analisti provavano a usare in modi non sempre canonici. L’amore, avverte lo psicoanalista con indulgente fiducia nelle proprie capacità, è un sintomo della guarigione, non bisogna averne paura. E Goliarda gli crede. Gli crede perché lui è il suo analista e perché il ghiaccio che ha attorno al cuore inizia a incrinarsi, come la parete di cristallo tra i due ambienti della scena, e il sangue che torna in circolo prende a reclamare solamente amore. Proprio come lo reclamiamo noi, dopo tanta lontananza, dopo tanti divieti imposti e auto-imposti, dopo tanto deserto e tante illusioni cadute.

 

Il racconto di Goliarda Sapienza si snoda lungo il filo delle sedute che, come recita il titolo, si svolgono quotidianamente a mezzogiorno nella sua casa che, a poco a poco, torna a riconoscere, come in una presa diretta del percorso terapeutico della protagonista. “Iuzza”, come Goliarda veniva chiamata da bambina, all’inizio è sperduta e spaesata, proprio come noi, ma a poco a poco inizia a mettere insieme i pezzi e a ritrovare un filo di luce nel buio. Così le due zone del palcoscenico, che all’inizio sembrano separate da una barriera invisibile, tornano a entrare in contatto proprio come la regione dell’inconscio inizia ad affiorare alla coscienza nel corso della relazione terapeutica. E anche le mani, i corpi e le bocche di Goliarda e dell’analista finiscono, in quel tenue raggio di luce, per riconoscersi e per toccarsi.

 

Che cosa ne è della terapia, a quel punto? La terapia finisce, come ogni cosa che giunge a compimento. Dal rimarginarsi di antiche ferite ne nascono nuove. Ma non è appunto questo la vita? Ognuno ha bisogno di trovarsi in relazione con l’altro e di avere di fronte a sé uno specchio umano in cui scrutare le proprie crepe e intravedere salvezza. La voce dell’altro ci aiuta a dare un nome a quelle paure e a disinnescarle nel momento stesso in cui le abbracciamo, nel momento in cui ci abbracciamo reciprocamente. E, allo stesso tempo, «ogni individuo», scrive Goliarda Sapienza in una delle pagine più intense della storia, «ha diritto al suo segreto e alla sua morte. E come posso io vivere o morire se non rientro in possesso di questo mio diritto?».

 

Il percorso di terapia, seppure interrotto bruscamente, l’ha portata fin qui, a questa amara forma di consapevolezza, che è però già di per sé parte della guarigione. Grazie a questa consapevolezza Goliarda rompe la quarta parete del palcoscenico, esce finalmente dallo spazio protetto del salotto di casa sua e si reimmette nel fiume della vita, disposta ad affrontare tutti i rischi che questo può comportare. Ed anche in questo gesto è così vera, così umana, così simile a noi quando ogni giorno, e coraggiosamente, usciamo in strada per incontrare gli altri e veniamo a patti con la “malattia della vita”.